La lezione di Franco Rodano trent’anni dopo

(di Raffaele D’Agata) L’attitudine a produrre discontinuità sistemiche, e  l’attitudine a costruire consenso trasversale, hanno assicurato la vittoria del sistema, oggi in crisi, che ci domina. Sono proprio le abilità che la sinistra avrebbe dovuto avere negli anni settanta.

Da quando la riflessione e l’insegnamento di Franco Rodano furono interrotti dalla morte, il 21 luglio 1983, sono dunque passati esattamente tre decenni. Questa interruzione non ebbe luogo in una situazione  che potesse somigliare agli ultimi passi prima dell’apparizione della terra promessa: piuttosto, ebbe luogo quasi un istante prima che il cammino del genere umano cominciasse a svolgersi lungo ciò che egli avrebbe riconosciuto come uno sterminato deserto, e con ragione. Non ne sarebbe restato sorpreso, avendo già dettato per i “Quaderni della Rivista Trimestrale”, verso la fine degli anni settanta, una serie di lucide analisi circa l’esaurimento di tutte le condizioni che avevano permesso alla democrazia di coesistere con il capitalismo dopo la seconda  guerra mondiale, sviluppandosi largamente pur senza mettere in discussione il nucleo fondamentale delle regole di tale sistema.

La serie di saggi il cui titolo generale enunciava il proposito di andare “Alla radice della crisi” merita infatti oggi di essere riletta insieme  con il solo testo del periodo che esprima una consapevolezza altrettanto lucida e profonda dei processi allora in corso, cioè il “Rapporto alla Commissione Trilaterale sulla governabilità delle democrazie”  scritto in quello stesso periodo da Samuel Huntington con Michel Crozier e Joji Watanuki.  La differenza sostanziale tra le due analisi non è grande. Diventa enorme soltanto in termini di giudizi di valore e di scelte pratiche conseguenti. Mentre infatti Huntington & C. non avevano dubbi quanto alla preminenza delle esigenze del capitalismo su quelle della democrazia, e perciò quanto alla necessità che la democrazia cominciasse a fare notevoli passi indietro, Rodano insisteva nel ricordare che il problema sta innanzitutto nel capitalismo.

Ma, se tutto finisse qui, non ci sarebbe molto da imparare, né da dire. In effetti Rodano insisteva con altrettanta energia nell’indicare la presenza di problemi anche nella democrazia; e qui stava la differenza tra il suo pensiero e quella che stava ormai diventando la mentalità prevalente di ciò che abitualmente chiamiamo sinistra. Dovrebbe essere inutile argomentare  quanto la presente situazione  di ciò che abitualmente chiamiamo sinistra possa ben suggerire attente riflessioni circa quella mentalità.

Rodano ci dice oggi, cioè, che la democrazia ha perso perché era stata messa – suo malgrado – in condizione di meritare, quasi, la sconfitta. Questo era il rischio che le sue ultime riflessioni additavano, e non è stato evitato. La democrazia fu cioè effettivamente  lasciata, infine, a sostenersi da sola, come il solo ed estremo orizzonte del politico: priva, cioè, non soltanto di strutture sistemiche a sé adeguate, ma anche di ogni serio sforzo di costruire qualcosa di simile. Peggio ancora, la democrazia fu lasciata sostanzialmente a dipendere (per tale funzione) dall’improbabile benevolenza di quella particolare combinazione di potere ed economia che chiamiamo capitalismo (ed è del tutto indipendente, ricordiamo, dall’idea di mercato con la quale viene troppo spesso confusa e addirittura identificata). Tutto ciò accadde in stretta relazione con un esangue affievolimento del pensiero critico e soprattutto della critica pratica tanto sul tema del potere quanto sul tema dell’economia: in altre parole, attraverso la rimozione del concetto di rivoluzione dal pensiero e dall’azione nella sfera del politico.

Al contrario, la rilevanza centrale del concetto di rivoluzione, in tale sfera, rappresenta un motivo chiave in tutto lo sviluppo del lavoro intellettuale di Franco Rodano, insieme con lo sforzo costante di definirlo in modo adeguato, ossia pienamente storico e umano (e, insomma, pienamente politico), distinguendolo e depurandolo da ogni implicazione meta-storica come quelle comportate da filosofie della storia di carattere più o meno esplicitamente teologico (includendo in ciò, per quanto possa interessare, anche il problema rappresentato dalle teologie atee, o per meglio dire anti-teiste).

Attento lettore di Croce, Rodano rivendicò costantemente la scoperta moderna dell’autonomia e della coerenza interna dell’economia, e con essa della politica,  nella loro distinzione dall’etica, che tuttavia non è contrapposizione. Coltivava e insegnava il gusto del lavoro ben fatto in relazione a necessità determinate. Le sue riflessioni sul tema del rapporto tra libertà e necessità (ruotanti intorno al fondamentale concetto di “limite”, così ricco di feconde implicazioni in tema di antropologia e di etica) restano affascinanti, innanzitutto come viatico per il mestiere di vivere a beneficio di  tante persone che ebbero la fortuna di incontrare e frequentare la sua persona.

Ma ciò che rendeva fecondamente scomoda la sua riflessione a questo riguardo è che il suo concetto di necessità e di limite non aveva niente a che vedere con qualunque idea di fato o di predeterminazione del possibile, come quelle che il clero stabilito del pensiero unico va oggi predicando costantemente da tutti i più invadenti altoparlanti della comunicazione globale, spacciandole per ragionevoli oltre che per moderate. L’idea che il “sistema”, comunque, non debba essere toccato, non poteva che stupirlo ed esasperarlo. E, in effetti, è un’idea stupefacente ed esasperante.

In realtà, la persuasione che il ritmo normale e costante del processo storico sia continuo, anziché marcato da frequenti e necessarie cesure, scomposizioni e ricomposizioni sistemiche, e insomma rivoluzioni, sembra essere penetrata a fondo soprattutto nei ranghi del personale politico e intellettuale di ciò che un tempo fu una sinistra, e attualmente limita il suo orizzonte a quello di una specie di Opposizione di Sua Maestà entro i vincoli sistemici che proprio trent’anni fa furono concepiti e imposti da una spregiudicata e vittoriosa operazione di rottura dei vincoli precedenti (quelli, appunto, del compromesso tra democrazia e capitalismo che il capitalismo non sopportava più, né poteva sopportare). Si trattò di un’operazione che, a propria volta, non condivideva quella persuasione (se non come artificio di linguaggio). E in effetti ebbe successo a livello globale proprio perché adottava, dal proprio punto di vista e per i propri scopi, gli strumenti che Rodano proponeva quasi inascoltato ai grandi partiti democratici ancora  robusti ma già in qualche modo irrigiditi (a cominciare dal PCI), per rispondere alle determinate, grandi e ineludibili necessità di quel decennio di svolta cruciale: vale a dire, da una parte l’attitudine a produrre discontinuità sistemiche, e dall’altra l’attitudine a costruire consenso trasversale.

Come è noto, la sua insistenza su quest’ultimo punto, nella sua interpretazione della politica berlingueriana del compromesso storico, lo fece oggetto di attacchi veramente concentrici come antimoderno, nostalgico di visioni organiciste, e via confondendo. Gran parte di questi attacchi, in realtà, andarono poi ad aggiungersi agli ingredienti del consenso trasversale vincente, a sua volta non si sa quanto moderno, fino alla recente e autorevole confessione che ardiva presentare il Governo Introvabile imposto all’Italia lo scorso aprile come – finalmente – l’attuazione della formula berlingueriana del compromesso storico, depurata da strane idee  come cambiamenti di sistema al di là dell’orizzonte del capitalismo, e in particolare (oggi) di questo capitalismo, l’unico possibile, combinato con il massimo tasso di democrazia che gli sia tollerabile (cioè, poca), e stabilito dalla sola rottura sistemica che fosse ammissibile.

Se vogliamo veramente fare i conti con questa ideologia, allora, la lezione di Franco Rodano, convenientemente riletta e attualizzata,  si presenta oggi tra gli strumenti più moderni e più adeguati di  cui possiamo disporre.



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