(scritto da Raffaele D’Agata) La battaglia per la difesa della Costituzione può non soltanto tenere insieme l’intero quadro delle lotte, ma può significare veramente la fine del difensivismo, del minoritarismo, nelle cui maglie ci dibattiamo ormai da anni, in particolare ad ogni appuntamento elettorale.
Si dubita talvolta che difendere la Costituzione, pur essendo certamente necessario, significhi molto più che impegnarsi in un’operazione di carattere puramente difensivo, dunque in qualcosa che non soltanto faccia parte del cosiddetto “minimo” di ciò che vogliamo (il famoso “programma minimo”, come una volta si diceva e talvolta si dice ancora), ma per di più , come ogni battaglia “difensiva”, esprima e confermi una situazione di inferiorità rispetto all’avversario. E certamente, lo vediamo, è l’avversario che intanto continua a tenere saldamente il campo, e continua a devastare indisturbato quasi tutto ciò che abbiamo di prezioso e di vitale, insomma quelle che consideriamo le possibilità (anche, ma non soltanto, materiali) e le ragioni di fondo del nostro vivere. E’ la situazione, appunto, in cui il movimento operaio e democratico, insieme con l’intera sua civiltà, si trova abbastanza stabilmente dalla fine del secolo scorso.
Proprio la difesa della Costituzione della nostra Repubblica, della Repubblica italiana, invece, si presenta adesso come l’occasione e la leva determinante di quella che può e deve essere la storica riscossa che noi vogliamo, e di cui il mondo ha bisogno. La difesa della Costituzione è contemporaneamente non soltanto la preparazione della controffensiva, ma l’inizio della controffensiva. Naturalmente, se si salda, tenendole insieme, con tutta una serie di lotte concrete sui bisogni, i diritti, i beni comuni: e su questo c’è tanto da fare, più che da dire adesso qui. La battaglia per la difesa della Costituzione, comunque, può non soltanto tenere insieme l’intero quadro delle lotte, ma può significare veramente la fine del difensivismo, del minoritarismo, nelle cui maglie ci dibattiamo ormai da anni, in particolare ad ogni appuntamento elettorale.
Questo perché la nostra Costituzione mette in mora la legittimità delle regole che il blocco sociale dominante ci impone; la nostra Costituzione mette in mora il blocco sociale dominante e la sua ideologia. Una difesa vittoriosa della Costituzione ha potenzialmente come risultato, e deve avere come risultato per essere vera e piena, una nuova forma di egemonia.
Se questo è vero, possiamo finalmente uscire dai dilemmi paralizzanti e ripetitivi che ci hanno attanagliato per anni circa forme-partito, nuovi soggetti politici, soggetti politici nuovi e vecchi. Che cosa deve nascere – tanti si sono domandati, spesso con dubbi e insoddisfazioni – dalla manifestazione del 12 ottobre? Un nuovo partito? Un nuovo partito che abbia poi quale genere di rapporto con quelli esistenti (PRC, PDCI, SEL, eccetera), nel campo devastato e impoverito della sinistra politica? E quale rapporto con altri partiti, per esempio (tema ricorrente, troppo ricorrente) con il PD e con ciò che ancora talvolta si insiste a evocare come un “centrosinistra”?
Ora, queste domande, sensate o no non sono le prime che ci dobbiamo fare. Se cioè noi (come troppo spesso, anzi sempre, abbiamo fatto) cominciamo da queste domande, non troveremo né soprattutto costruiremo la risposta che pure è necessario e anche urgente dare ad esse. Per trovare e per costruire queste risposte, bisogna innanzitutto pensare ad altro e soprattutto fare altro.
Questo non significa necessariamente procrastinare. Stiamo parlando di qualcosa che, sì, è urgente. Cominciare da quelle solite domande, però, presuppone qualcosa di sbagliato: presuppone, cioè, che ci sia un gioco funzionante e accettabile. Non è così. Non è giocando al gioco che ci viene imposto, cercando di divincolarci al suo interno, che ormai (data la storia che la sinistra politica organizzata ha avuto in Italia, e la sua presente struttura che riflette i suoi fallimenti) potremo costruire qualcosa e fare il necessario.
Ciò che si presenta oggi in Italia sono ormai i conti disastrosi di un ventennio: il ventennio della cosiddetta Seconda Repubblica. E i conti disastrosi di questo ventennio riguardano anche tutte le esistenti organizzazioni politiche della sinistra. Fin dall’origine, cioè fin dalla fine del PCI, la storia di quell’area politica che oggi si articola principalmente in tre formazioni residuali (PRC, PdCI, SEL) è stata caratterizzata da una polarità mai pienamente risolta, distruttiva paralizzante, tra due estremizzazioni di due elementi dell’eredità del PCI privi di sintesi e fissati entrambi nei loro aspetti peggiori: da una parte, cioè un togliattismo che spesso finiva per essere astratto e scolastico quanto alla “politica delle alleanze”; dall’altra, una giusta tensione utopica, incapace però di scorgere e utilizzare gli appigli giusti nella realtà delle cose per concorrere alla loro effettiva trasformazione.
Specificamente, le fondamentali mancate opportunità furono forse due. Nel 1993, si trattò della possibilità mai seriamente tentata di prendere lo stesso Occhetto in parola, condizionare la “svolta” da sinistra e lavorare efficacemente per un partito che fosse concretamente rivoluzionario indipendentemente dal nome, dopo anni di egemonia opportunista annidata sotto il simbolo comunista (con il conseguente e definitivo trionfo dell’egemonia opportunista previa liquidazione di un Occhetto che costoro potevano vedere come un “utile illuso”). Nel 1996, anziché seguire l’ambigua e passiva strategia delle “desistenze”, si trattava di negoziare con il centrosinistra ancora nascente un pieno appoggio e una piena partecipazione per un programma di salvezza repubblicana (inclusivo di ineleggibilità e conflitto d’interessi) in stile CLN, per il ritorno al proporzionale e per la piena fedeltà all’art. 11. E forse, in questo secondo caso, non avremmo poi neanche bombardato la Serbia. Soprattutto, non ci troveremmo oggi su questa estrema linea di difesa ormai della lettera stessa della nostra Costituzione democratica.
Ora, l’ambiguo crepuscolo, che stiamo vivendo, di questo ventennio di stravolgimenti e di mistificazioni ci dà una nuova e importantissima occasione. Possiamo uscire da quei dilemmi perché i termini stessi di quei dilemmi non esistono più, perché (dopo le infamie conclamate di aprile, dopo la vicenda del Quirinale) la parola “centrosinistra” si rivela un nome vano senza soggetto, ed è stupefacente che da parte di alcuni, a sinistra, si continui a parlarne. Questi discorsi non hanno, semplicemente senso. Non ha senso dividersi su questo. Tutto ciò che ha diviso prima il PRC dal PdCI nel 1998, poi il PRC da SEL dopo il 2008, aveva come scenario una situazione in cui l’involuzione maligna della struttura istituzionale della Repubblica non era ancora arrivata a questo punto di aperto attacco alla lettera stessa della Costituzione nei suoi principi essenziali, e la questione della “partecipazione al governo” – partecipazione in quel quadro e secondo quelle regole – aveva ancora un senso (comunque decisa), a determinate condizioni. Oggi, è la stessa legittimità democratica del sistema politico stabilito che deve essere contestata in modo radicale. Se non lo capiamo, molti dei molti nostri potenziali elettori continueranno a votare per Grillo.
Che cosa possiamo fare allora noi oggi? Intanto la manifestazione del 12 ottobre deve riuscire e deve essere grande. Le figure, le insegne di riferimento, sono quelle giuste: una figura-simbolo della resistenza operaia al neoliberismo, un riconosciuto testimone della resistenza civile e democratica capillare, quotidiana, al potere del crimine organizzato e dell’ipocrisia che lo copre; un uomo saggio che ha ben rappresentato in aprile, durante l’oscura vicenda dell’elezione presidenziale, la speranza di una rinascita della politica democratica capace di unire molte e diverse anime dell’opposizione sociale, civile, culturale nel nostro paese.
Che cosa può, che cosa deve nascere da tutto questo? Un nuovo partito unitario costruito anche e soprattutto , come di dice dal “basso” (chissà perché “basso”, poi)? Certo, di un tale partito c’è bisogno oggi. C’è bisogno di un partito che sia nuovo rispetto a tante strane cose cui si dà tale nome in Italia da vent’anni, che sia nuovo anche rispetto alla storia delle esistenti formazioni della sinistra e perciò estraneo alle false prospettive che queste hanno subito; nuovo anche rispetto ai limiti delle esperienze passate nei primi decenni di vita della Repubblica, di cui però sappia raccogliere e rivitalizzare le indispensabili lezioni, attualizzandole. Ma, da un altro lato, un tale partito non si inventa intorno a un tavolo, (sebbene anche i tavoli servano). Un tale partito ci sarà quando ci sarà, cioè quando tutti vedranno che c’è prima ancora che sia formalmente costituito, mentre si staranno facendo le stesse cose, mentre si starà lottando per le stesse cose. Anche se questo non vuol dire rinvio a chissà quando; non può e non deve significare questo.
Intorno a quali segnali, e nomi, e simboli, tutto questo accadrà? Non lo sappiamo ora, ma dobbiamo saperlo presto. Ce lo dirà ciò che intanto dobbiamo fare tutti insieme, se lo avremo fatto bene.
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