Approderà Il Dottor Barca a un imprevisto e promettente mondo nuovo, come accadde a Colombo? Difficile dire. Poiché tutti siamo alla ricerca di un tale approdo, vale comunque la pena di seguire un tale viaggio con interesse (sebbene non a bordo di navi della stessa compagnia).
Quasi contemporaneamente, alla fine del 2013, tanto Silvio Berlusconi quanto i suoi tradizionali e consolidati concorrenti nel gioco politico italiano (dire “oppositori” sarebbe un’esagerazione) sembrano avere perduto le rispettive preminenti posizioni, in un turbinoso rimescolamento di ruoli entro i ranghi del personale politico stabilito. In effetti, il Berlusconi decaduto e in parte ridimensionato da molti dei suoi resta un condannato la cui libertà di movimento e d’iniziativa avrebbe fatto invidia a Napoleone Primo nei giorni dell’Elba; e, se sta meditando e pregustando adesso i propri “cento giorni” (almeno), può avere qualche ragione di sperare che per lui finisca meglio. Da parte sua,il quasi giovane e molto ambizioso sindaco di Firenze ha preso trionfalmente le redini del Partito democratico con la piena approvazione del suo principale fondatore e con la risentita emulazione del lungamente stabile competitore di quest’ultimo circa chi meglio interpreti gli stessi dogmi e gli stessi atteggiamenti: cioè, il dogma del bipolarismo forzato, la fascinazione per l’ingegneria istituzionale come surrogato del giusto governo, e un’euforica sottomissione all’orizzonte del capitalismo reale del ventunesimo secolo.
La somma dei due milioni e passa di persone che hanno acclamato Renzi tramite le urne nei gazebo l’8 dicembre, e del quasi milione che ha invece cercato di esorcizzare il suo avvento per la stessa via, non significa necessariamente un’inversione rispetto alla tendenza generale: cioè, quella segnalata dalle elezioni regionali anticipate tenute in Basilicata due settimane prima, dove le persone non votanti sono risultate largamente costituire il “partito” di maggioranza assoluta per la prima volta in Italia dopo l’introduzione del diritto universale di voto in questa nazione. Gli ansiosi e febbrili affollamenti intorno ai gazebo di dicembre, anche considerando le loro motivazioni e le loro provenienze tutt’altro che uniformi, sembrano avere prevalentemente manifestato – comunque – un bisogno di auto-rassicurazione entro il recinto di quella quota di persone che fa affidamento sull’attuale configurazione dell’offerta di rappresentanza politica (che è una quota ragguardevole, ma non così largamente, e forse ormai non affatto, maggioritaria). Un alto e determinante numero di queste persone è certamente costituito da testimoni, eredi ed epigoni di una cultura civile le cui radici affondano nella storia della sinistra italiana pur essendo più o meno seriamente contaminate da un ventennio di personalizzazione, verticalizzazione e trivializzazione del discorso politico. Per molte di quelle persone, sembra essersi trattato – all’interno di un gioco così impoverito di senso, fino a toccare l’irrilevanza – di ritornare a “vincere”, e di impedire un temuto ritorno di “altri” spesso decentemente aborriti. Sembra essersi trattato, cioè, di un investimento di fiducia notevolmente ardito, e quasi temerario (specialmente nel secondo di questi due sensi).
Il processo interno al PD che più sembra costituire una riserva a disposizione di tali energie e di tali motivazioni più o meno vivaci, e comunque non del tutto deviate, può essere riconosciuto attualmente nell’iniziativa di “crowdfunding”, di animazione capillare dal basso, e soprattutto di sollecitazione a pensare e ideare, che il dottor Fabrizio Barca ha intrapreso qualche tempo fa e sta attualmente sviluppando. Erede non degenere di una tradizione familiare che fu tra le più vicine alla grande sintesi berlingueriana di tradizione rivoluzionaria e laicità democratica – e perciò tra le più lontane delle sirene del neoliberalismo capitalista con o senza abbellimento di velleità radicali – Barca è segnalato sullo sfondo del vuoto chiacchiericcio e delle grida scomposte che invadono la scena della politica ufficiale in questi mesi per la sua attenta dedizione a quanto resta di quelle radici nel complesso patrimonio che il PD si trova a ereditare e gestire (in tutti i sensi).
Anche coloro che – come noi – si aspettano poco o nulla a breve termine da qualche evoluzione interna di questo PD neo-thatcheriano, e lobby-dipendente, puntando invece decisamente sullo sviluppo di una forte e intransigente pressione da sinistra (cioè dall’esterno e antagonista), hanno ragione di seguire tale processo con interesse. Barca, senza alzare la voce, dice cose piuttosto importanti – dato il ruolo che svolge – sia quando addita la «tentazione del “cesarismo”», sia quando demolisce sommessamente il mantra della “governabilità” (senza menzionare l’orribile neologismo) suggerendo che il problema non è un presunto «deficit di potere dei governanti» ma piuttosto un reale «deficit di visione, partecipazione attuazione» (non a caso, sembra di capire, in questo preciso ordine).
Tuttavia, resta ancora difficile conciliare con ciò l’ossequio (sperabilmente verbale) che Barca insiste a rendere alle note litanie in lode dei sistemi elettorali maggioritari. Vale sempre la pena di ricordare che la funzione reale ed essenziale di ogni sistema elettorale non proporzionale consiste in una censura restrittiva ed escludente rispetto ad un campo di opzioni ammesse. Soltanto personalità del tutto eccezionali (come quella di Roosevelt) in circostanze altrettanto eccezionali (come la grande depressione del secolo scorso) possono rendere inefficace, per qualche tempo, questo micidiale meccanismo. Oggi, in circostanze altrettanto eccezionali ed analoghe, faremmo bene a non dipendere così strettamente da un genere di regali che la storia non usa fare con grande frequenza.
Raffaele D’Agata (23.12.2013)
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