Mackinder, non Jefferson (né, per quanto riguarda l’Europa, Brandt) sembra dettare oggi l’agenda nel nucleo profondo e durevole del potere a Washington (e, di riflesso, nell’intero mondo occidentale). E coloro che lo leggono e lo interpretano entro quel nucleo profondo (dove neocons romantico-reazionari, schumpeteriani whig alla Brzezinski, e soprattutto squali della finanza, convivono abbastanza serenamente sorridendo con indulgenza delle rispettive paranoie) non sembrano preoccuparsi troppo delle increspature e delle apparenti tempeste superficiali che l’avvento di un presidente nero e un po’ idealista, o di una governatrice donna e blandamente keynesiana della Fed, possano mai sovrapporre a una tale corrente di fondo.
Non molti e non molto spesso ricordano Hjalmar Schacht, economista e grande banchiere di fiducia veramente di tanti negli anni trenta del secolo scorso: di Hitler, della City di Londra, di Herr Thyssen, di Herr Krupp, della Deutsche Bank, del Comité des Forges (quelli di “Meglio Hitler che Blum”, ossia meglio lui che il Fronte popolare), e simili. Considerato un mago del “central banking” e della grande finanza internazionale, Schacht elaborò una visione e una pratica che affascinarono e convinsero gran parte dei potenti, dei ricchi e dei conservatori di tutto il mondo, in quel periodo di crisi economica grave e profonda quasi quanto quella presente. I suoi capisaldi erano una fede incrollabile nei principi di fondo del sistema monetario aureo – sostanzialmente riducibili all’idea che il denaro debba essere sempre scarso e pregiato innanzitutto a beneficio di chi ne possiede e ne manovra molto – accompagnata da molto spregiudicato sperimentalismo monetario ed economico e addirittura da apparenti abiure per i tempi difficili, nonché dal tranquillo riconoscimento che ciò che veramente serve per fare funzionare quella specifica forma di mercato economico denominata capitalismo sono mani molto forti e molto visibili (altro che la “mano invisibile” della libera concorrenza!), cioè mani capaci di creare e difendere imperi.
In una bellissima pagina delle Economic Consequences of the Peace (1920), Keynes sorride amaramente sulla falsa coscienza dell’ “abitante di Londra” di pochi anni prima, collocato nel posto momentaneamente migliore del grande girotondo di quella prima globalizzazione, imbevuto di favole ufficiali circa l’esistenza di un trasparente e benevolente mercato mondiale fino al punto di relegare a “passatempi di giornale quotidiano” le notizie sui giganteschi armamenti che si andavano accumulando, e sui fuochi di guerra che si accendevano in cerchi centripeti sempre più prossimi a quella felice e gaudente Europa (fino alla nota catastrofe di cui stiamo vivendo l’anno centenario). Da parte loro, i conservatori degli anni trenta preferivano ormai non consolare la gente con le favole. Schacht descriveva il futuro del capitalismo mondiale come un’ “economia di grandi spazi”, ossia di grandi imperi, cercando di convincere gli inglesi che la formazione di un grande spazio imperiale continentale a guida tedesca non sarebbe stata alternativa né dannosa, bensì complementare, rispetto al loro potere imperiale più o meno diretto e più o meno “soft”: ed ebbe anche un discreto successo fino a quando il gioco (diventato oggettivamente troppo duro) sfuggì al suo controllo e a quello dell’élite transnazionale cui faceva riferimento.
Ciò che accade in queste ore in Ucraina ci ricorda drammaticamente tutto questo. Tanto più se lo accostiamo al vertice del NAFTA (North American Free Trade Agreement) che si è svolto contemporaneamente a Città del Messico, avendo all’ordine del giorno non tanto e non soltanto l’intensificazione dei legami commerciali e finanziari stabiliti dagli USA con il Messico e il Canada quanto soprattutto la loro più stretta integrazione con il più largo anello della Trans Pacific Partnership (TPP) già esistente. L’idea, ovviamente, è quella di completare il disegno mediante un cerchio enormemente più ampio che includa l’attualmente progettata Trans-Atlantic Partnership, destinata ad estirpare definitivamente ogni germe di possibili decisioni autonome dell’UE in tema di sostenibilità ecologica e biologica delle produzioni, di qualità della condizione lavorativa, e in generale di ogni sua residua o risorgente idea di contendere ai grandi monopoli privati il potere di decidere che cosa come e per chi produrre.
Mackinder, non Jefferson (né, per quanto riguarda l’Europa, Brandt) detta insomma l’agenda. E coloro che lo leggono e lo interpretano (entro il nucleo di potere dove neocons romantico-reazionari, schumpeteriani whig alla Brzezinski, e soprattutto squali della finanza, convivono abbastanza serenamente sorridendo con indulgenza delle rispettive paranoie) non sembrano preoccuparsi troppo delle increspature e delle apparenti tempeste superficiali che l’avvento di un presidente nero e un po’ idealista, o di una governatrice donna e blandamente keynesiana della Federal Reserve, possano mai sovrapporre a una tale corrente di fondo. Dunque, il nocciolo continentale euroasiatico formato dalla triade Russia-India-Cina deve essere contenuto e tenuto a bada con quanta energia sia compatibile e necessaria sottraendo ad esso fasce “costiere” significative e determinanti. I forzieri dei petromonarchi del Golfo (inclusi quelli schiavisti, oltre che benvoluti neofiti del calcio-spettacolo) continuano a costituire il carburante finanziario di questo impero trilaterale come fu stabilito una volta per tutte negli anni settanta del secolo scorso. E ogni genere di attività coperta, ossia di manipolazione, menzogna, contrabbando di armi, arruolamento di bravacci, e occasionali massacri, può essere funzionale a tali obiettivi, probabilmente come deplorevole ma inevitabile altro lato della difesa dei diritti umani.
Di tanto in tanto, l’improvvisa scoperta delle abitudini corrotte e spregiudicate di questo o quel governo o regime (o la semplice invenzione di ciò, come nel caso del Venezuela) serve da cortina sonora e fumogena per cambiare totalmente l’aspetto agli occhi dell’opinione pubblica degli interventi energici (ovviamente indiretti) che siano richiesti dalla prevenzione di sviluppi indesiderati rispetto a un tale schema ferreo. Il partito al potere in Messico non corre alcun rischio di essere considerato corrotto e spregiudicato (quale che sia il ricordo che si abbia delle strane vicende elettorali che contrassegnarono il suo discusso successo qualche anno fa) fino a quando si distingue per il suo ruolo di vero e proprio campione del NAFTA, del TPP, e di tutto ciò che sa di privatizzazione e deregolamentazione di tutto (meno che della libertà di movimento delle persone). L’intenso interscambio di droga in cambio di pistole che determina largamente la sostanza dei rapporti commerciali tra USA e Messico può essere anche visto come uno dei prezzi del libero mercato e della società aperta, e ciò permette di guardare con un’indignazione circoscritta e poco esigente alla mattanza e in particolare al femminicidio di massa che imperversano quotidianamente nello stato frontaliero di Chihuahua, diversamente dal chiaro segno di anarchia totalitaria che veniamo invitati a riconoscere nel tasso di criminalità tuttora elevato in Venezuela.
Sarebbe esagerato vedere nell’Ucraina del XIX secolo qualcosa di analogo a ciò che il Texas fu per gli Stati Uniti nel XIX secolo. La Russia di oggi è enormemente più temibile del Messico di allora, le armi nucleari continuano a rendere le guerre dirette e totali tra le maggiori potenze enormemente meno probabili che in passato, e il solco ormai creato tra la Russia e il resto dell’Europa è probabilmente già abbastanza profondo quanto era richiesto dalla strategia di cui si è detto. La tortuosità e l’insipienza con cui Bruxelles ha gestito le sue ambizioni di espansione a Est non si accompagnano, fortunatamente, ad alcuna capacità o volontà di usare muscoli. Bruxelles non avrà occasione di distribuire anche agli ucraini le medicine di diseguaglianza, solitudine sociale, e occasionalmente miseria (anche se benefica e provvisoria) che i suoi sommi e accigliati sapienti dispensano ai greci e ad altri. In compenso, quel tanto di deregolamentazione e di libero mercato “reale” che ha caratterizzato l’Europa orientale ex-sovietica e i suoi rapporti con l’UE assicura e assicurerà per molto agli ucraini molte occasioni di morte violenta (unica cosa quasi sicura per il momento, a meno di un miracolo sempre da sperare e da ricercare).
Raffaele D’Agata
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