Possono un consenso anticomunista (come quello che influisce in modo determinante sulla geocultura postnovecentesca) , e la relativa e fondante narrazione, combinarsi organicamente con la democrazia?
Quasi mai il ruolo essenziale svolto dal PCI nella lotta di liberazione nazionale e quindi nella fondazione della democrazia in Italia, dopo la catastrofe rappresentata dal fascismo e dalla guerra, è stato messo in dubbio. Discussioni ci sono sempre state, ovviamente, piuttosto sul senso di questo stato dei fatti. Un problema specialmente controverso consiste nel riconoscere il modo in cui tale comportamento dei comunisti italiani sia da collocare entro l’intera vicenda storica del comunismo mondiale. In quale misura (cioè) l’identificazione del Partito comunista italiano con la causa della democrazia in Italia rappresenta una peculiarità entro la vicenda mondiale del comunismo?
La peculiarità, senza dubbio, esiste. Ma sembra esserci ancora da ragionare circa la misura e circa il senso in cui lo è.
Domandarsi questo oggi, quando il PCI non c’è più da oltre un ventennio, può servire a ragionare sempre più a fondo sul significato di quella sua improvvisa sparizione, e precisamente su quale rapporto essa abbia con tale peculiarità, una volta che questa sia chiarita bene. La fine del PCI rappresenta forse, cioè, un compimento rispetto a questa (come alcuni sembrano suggerire), o non piuttosto il risultato di un processo di sempre più radicale mutazione? Ma ciò comporta anche domandarsi in quale rapporto la sparizione del PCI sia da collocare, a conti fatti, con il processo di formazione della presente egemonia sistemica e globale di un consenso anticomunista (e della relativa e fondante narrazione). Possiamo vedere infatti che un tale consenso si sovrappone ormai da tempo al consenso antifascista che influenzò largamente lo spazio pubblico in termini globali (sebbene tra molte e gravi contraddizioni) per alcuni decenni dopo la seconda guerra mondiale. Vi si sovrappone in modo talmente corposo da tendere di fatto a sostituirlo, o almeno ad affievolirlo fino a renderlo sostanzialmente inefficace in molte importanti e gravi situazioni.
Sollevata una tale questione, però, seguono necessariamente un’osservazione e da qui poi un’ulteriore domanda. Se cioè intendiamo per geocultura una stretta combinazione di elementi cognitivi ed elementi strutturali ossia sistemici, determinanti di tempo in tempo a livello globale, non possiamo fare a meno di osservare come la forte influenza esercitata da un consenso antifascista durante tutto il terzo quartile del Novecento caratterizzò la geocultura di quel periodo come (relativamente) la più aperta a processi e sviluppi democratici di cui si abbia conoscenza; viceversa, la geocultura successiva, entro la quale oggi viviamo, caratterizzata dall’influenza determinante di un consenso anticomunista, presenta anche strutturali processi di indebolimento e di sofferenza della democrazia. Se è così, appare difficile evitare di domandarsi infine, e fondamentalmente, in quale misura l’anticomunismo sia realmente compatibile con la democrazia: almeno (è ovvio) se intendiamo per anticomunismo non questa o quella manifestazione del vitale e fecondo confronto tra le percezioni del bene comune, bensì una preliminare e inconciliabile estraneità di mondi morali, simile a quella che ci fu, doveva esserci, e dovrebbe sempre esserci, nel caso dell’antifascismo.
Che cosa ci dice, su questo, la storia del Novecento? Che cosa specialmente ci dice su questo la sua fase centrale e determinante, costituita dalla seconda guerra mondiale?
Di fatto, ciò che la storia del Novecento innanzitutto mostra, in quella sua fase centrale e determinante, nonché nei suoi sviluppi di medio-lungo periodo, è che il corso delle cose fu largamente influenzato da una grande alleanza antifascista, di carattere mondiale, includente il comunismo. Ed era questa la sola possibilità? No: così non appare.
Esisteva anche infatti (e fu non solo cercata, ma anche in qualche modo praticata in vari momenti) per prima cosa la possibilità di una grande alleanza anticomunista comprendente il fascismo. Ma non soltanto. Esisteva inoltre (e sembrò in alcuni momenti quasi avvicinarsi a influenzare i fatti) la possibilità di un’alleanza antiliberale in cui fascismo e comunismo svolgessero ruoli compatibili, almeno di fatto.
Soltanto la prima possibilità si realizzò pienamente, e fino in fondo. Perché? Forse, soltanto per un complesso di circostanze di fatto (tra le quali, comunque, resterebbe sempre la necessità di annoverare scelte e volizioni in qualche modo libere)? O non dovremmo piuttosto riconoscere in quel corso di avvenimenti un significato rilevante, in qualche modo cioè anche una fonte di discernimento intellettuale e morale?
In effetti, la Grande Alleanza antifascista si formò proprio immediatamente dopo la definitiva sparizione della terza possibilità (quella cioè di una costellazione antiliberale in cui fascismo e comunismo svolgessero ruoli compatibili) per effetto dell’ aggressione preventiva scatenata dal Terzo Reich contro il non casualmente e pericolosamente ambiguo (ai suoi occhi) potenziale alleato rappresentato (sempre ai suoi occhi) dall’Unione Sovietica.
Prima che ciò accadesse, tra la firma del patto tedesco-sovietico nell’agosto del 1939 e l’inizio dell’aggressione hitleriana, può essere utile ricordare che questa terza possibilità era considerata con attenzione, e trattata piuttosto seriamente, sopratutto da due punti di vista indipendenti e paralleli. Uno era stato quello dei dirigenti francesi e di parte almeno di quelli britannici, per qualche tempo orientati a intensificare e connotare sì in senso ideologico (ma anticomunista) una guerra da essi iniziata senza convinzione e senza chiare idee circa il modo di condurla e di tendere a concluderla politicamente. L’altro era stato rappresentato dalla stampa di regime nel Terzo Reich, istruita ad esaltare l’intesa con l’URSS tanto a fini di manipolazione del consenso interno quanto come riflesso del temporaneo successo di correnti ideologiche interne al regime stesso che fin dall’inizio avevano speculato e scommesso su un’evoluzione di ciò che usavano chiamare bolscevismo in un senso affine e compatibile con le loro cupe distopie ultra-organiciste (un fiume carsico, questo del “nazionalbolscevismo”, le cui diramazioni dopo il 1933 avevano preso direzioni diverse nei confronti del regime, che andarono dalla distanza critica anche attiva a un sostanziale allineamento). Ora, non esiste traccia di echi corrispondenti a toni di questo genere nel linguaggio della comunicazione pubblica rigorosamente controllata dal partito comunista sovietico nello stesso periodo, come era notato e messo in rilievo dagli attenti e sensibili servizi d’informazione britannici e certamente non sfuggiva a Berlino, così da costituire probabilmente un elemento in più nell’influenzare il corso degli eventi verso la direzione che gli avrebbe dato senso a Stalingrado.
Naturalmente, tanto la situazione contrassegnata dal patto Molotov-Ribbentrop quanto la successiva situazione contrassegnata dagli accordi americano-sovietici di assistenza logistico-militare, dal trattato di alleanza anglo-sovietico, e dalla firma sovietica alla Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1° gennaio 1942, possono essere descritte e illustrate, e per alcuni aspetti anche comprese, tenendo conto delle necessità geopolitiche percepite e affrontate dal punto di vista di grandi potenze, e dei calcoli conseguenti. Nondimeno, per quanto peso si intenda e si debba anche dare a fattori e motivazioni di tale natura, è importante notare e sottolineare nello stesso periodo da una parte il contrasto tra la diplomaticamente misurata sobrietà del linguaggio pubblico sovietico quanto al senso e alle prospettive dell’intesa con Berlino (appena bilanciata dalla prevalente connotazione in senso antibritannico e antifrancese delle denunce circa il carattere puramente “imperialistico”, e niente affatto antifascista, del conflitto frattanto in corso), e dall’altra parte l’enfatica condivisione dell’enunciazione di valori affidata ai più solenni documenti della Grande Alleanza a partire da quella fondamentale Dichiarazione, firmata a Washington dal rappresentante sovietico Maksim Litvinov insieme con i principi della Carta Atlantica cui il suo testo esplicitamente si riferiva, e rinviava. È vero che Mosca ebbe cura di accludere una riserva unilaterale circa le “particolarità storiche e nazionali” di cui l’applicazione di quei principi avrebbe dovuto a suo avviso tenere conto (e in effetti la politica sovietica ne avrebbe tenuto poi conto attivamente in modo molto esteso, anche in termini territoriali): così come del resto il Primo ministro britannico Winston Churchill in persona aveva insistito già a Terranova nell’agosto del 1940 sulle “esistenti obbligazioni” (manifestamente in tema di finanza e di petrolio) da preservare comunque nell’applicazione del principio del libero accesso dei popoli alle risorse essenziali, mentre la Carta Atlantica era stilata al largo di quella isola. Tuttavia (semplificando qui appena un po’), resta da osservare che nessun riferimento, se non addirittura al Mein Kampf, comunque ad alcuna formulazione retorica di scopi condivisi (come invece nel preambolo del Patto d’Acciaio italo-tedesco o successivamente tra le righe del Patto Triparito italo-nippo-tedesco) si trova tra i documenti relativi ai rapporti tedesco-sovietici tra il 1939 e il 1941, con o senza riserve unilaterali. Sicché infine (come senso che appare riconoscibile in tutto questo), tutti coloro, tanto entro la moltitudine di credenti che costituivano la sostanza e la vitalità del comunismo nel mondo, quanto nelle severe e tragiche sedi dove un ferreo potere temporale era esercitato in suo nome (e Litvinov era certamente tra questi ultimi, per non parlare ovviamente di Togliatti), avevano sofferto la solitudine e le disillusioni prodotte dal compromesso con Hitler, potevano profondamente sentire, in quel Capodanno del 1942, di essere ritornati a casa. Di quel clima, l’esecuzione dell’Internazionale al Metropolitan di New York sotto la direzione di Arturo Toscanini resta una delle testimonianze certo più suggestive, che si conserva registrata, e noi sbaglieremmo davvero a trattare come un cimelio che non possa in qualche modo ispirare vita e storia anche per noi oggi.
In tale contesto, i due capisaldi della politica dei comunisti italiani durante la guerra di liberazione nazionale – vale a dire la ricerca dell’unità tra tutte le forze antifasciste e l’indicazione di una democrazia certo più avanzata (ma sempre di tipo parlamentare) come scopo della lotta – erano certamente espressione matura e organica di una peculiarità che li caratterizzava ormai da tempo (cioè fin dal congresso di Lione e insomma fin da quando il pensiero di Antonio Gramsci aveva definitivamente impresso un carattere permanente alla loro identità e alla loro storia); ma erano anche, ormai, sempre più largamente coincidenti con la direzione che la grande e terribile avventura iniziata nel mondo nell’anno 1917 sembrava finalmente orientata a prendere verso un suo compimento e un suo coerente senso proprio secondo ciò che Gramsci intuiva quando interpretava il fragile e contraddittorio armistizio che aveva momentaneamente interrotto la prima grande guerra interimperialista: quando cioè Gramsci giudicava lucidamente la Russia sovietica “tanto poco socialista quanto può esserlo il resto del mondo”, e tuttavia indispensabile, così com’era e poteva essere, affinché il resto del mondo potesse avere respiro e tempo di trovare la strada verso il socialismo. Proprio, cioè, verso quel socialismo pieno e maturo che soltanto la combinazione organica della democrazia da conquistare con una nuova e più alta forma di economia, a partire dai punti più alti dello sviluppo della civiltà moderna, avrebbe potuto realizzare.
La politica democratica e nazionale dei comunisti italiani nella Resistenza e nella fondazione della Repubblica ha insomma le sue radici in Gramsci e il suo riferimento contemporaneo nello spirito della Grande Alleanza antifascista a livello mondiale. In seno a questa, appunto, i presupposti di un’economia nuova, finalmente compatibile con la democrazia e con la pace, cominciavano ad essere elaborati attraverso un processo di tendenziale internazionalizzazione del New Deal rooseveltiano, che cercava e otteneva il sostegno attivo dell’Unione Sovietica (in particolare nel corso della conferenza economica delle Nazioni Unite tenuta a Bretton Woods nel luglio del 1944), anche al fine di battere le per il momento sorde resistenze conservatrici acquartierate nelle sedi del potere economico e finanziario globale sulle sponde dell’Atlantico settentrionale e della Manica. Per il momento, appunto: perché le cose, poi, andarono molto diversamente, a loro favore. Da allora fino ad oggi, si può dire. Ed è per questa ragione che un certo umore di inevitabilità e di sostanziale allineamento di fronte alla culminazione estrema e globale di un tale successivo andamento di cose (elaborato e narrato non soltanto né piuttosto nelle analisi quanto soprattutto nei miti riguardanti la globalizzazione), come atteggiamento complessivamente riconoscibile nell’ispirazione del processo di auto-soppressione del PCI, configura tale processo non come il compimento della sua storia ma come la soppressione anche di questa.
Ritornando alla storiografia, il riferimento alla Grande Alleanza come aspetto essenziale della politica dei comunisti italiani durante la guerra di liberazione contrasta naturalmente con una scolastica e ben nota narrazione di questa come una qualche realistica presa d’atto dell’imminente divisione del mondo in sfere d’influenza (per di più, nelle versioni meno acute, suggerita e imposta da Stalin), e perciò come rinuncia a non si sa bene poi quale rivoluzione. Certamente invece il partito di Togliatti si muoveva in una prospettiva che non prevedeva né comunque considerava ineluttabile la successiva divisione dell’Europa e del mondo in blocchi contrapposti, non diversamente da come risulta non soltanto dalle dichiarazioni ufficiali della politica sovietica di quegli anni, ma dalla ricca documentazione che ormai da tempo illustra il suo processo di elaborazione. Tanto che gli storici che tuttora giudicano ineluttabile quella divisione e la conseguente “Guerra fredda”, pur essendo ovviamente più vicini all’uso pubblico prevalente della storiografia in seno alla geocultura contemporanea, ammettono ormai molto spesso in qualche modo (essendo, generalmente, seri) la necessità di giustificare tale giudizio; quanto poi ci riescano, è altra questione.
Raffaele D’Agata
(Comunicazione svolta durante il convegno di “Futura Umanità” su “La lotta di liberazione e la costruzione della democrazia”, Roma, 23 ottobre 2015).
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