Solidarietà repubblicana in Francia, e fittizie rianimazioni del fantasma del centrosinistra in Italia, hanno aspetti comuni, che sono sicura garanzia di ulteriore umiliazione della democrazia.
Ritirando propri candidati dai ballottaggi in alcune regioni, Il Partito socialista francese chiama i propri simpatizzanti a lasciarsi rappresentare in sua sostituzione da candidati conservatori meglio piazzati per sbarrare la strada al partito di Marine Le Pen. Ciò presuppone, naturalmente, la condivisione di qualcosa di essenziale, e la comune contrapposizione a qualcosa di altrettanto decisivamente minaccioso. Può forse sembrare, insomma, che si tratti di un ritrovamento dell’eredità antifascista. Sarebbe bello. Ma non è affatto così.
Indipendentemente da ciò, in effetti, socialisti e conservatori condividono già da tempo moltissime cose, in Francia come nel resto dell’Unione europea, e tra queste l’antifascismo occupa una posizione molto marginale se mai ne occupa alcuna. Perfino un eventuale paragone con il sostegno socialdemocratico alla rielezione di Hindenburg in Germania nel 1932 sarebbe insomma molto forzato e decisamente troppo generoso, anche se alcune analogie forse ci sono (almeno nel senso che i socialdemocratici di Weimar pretendevano di rinserrarsi a difesa di fronte al nazismo dietro il contrafforte di politiche odiose che anziché indebolirlo gli regalavano simpatizzanti a plotoni). I socialdemocratici di Weimar, in effetti, spacciavano o confondevano la realtà della Società delle Nazioni come se fosse il realizzato ideale della sicurezza collettiva (senza vedere come le potenze vincitrici ammettessero esplicitamente di preferire una Germania riarmata al proprio disarmo), e la solidarietà tra banchieri centrali al servizio dell’alta finanza nella difesa e poi nella nostalgia del sistema aureo come se fosse internazionalismo economico. E, analogamente, i partiti del PSE spacciano o confondono le attuali istituzioni dell’Unione Europea come figlie di utopie riformatrici del secolo scorso anziché come garanzia e presidio di un ciclo di restaurazione antidemocratica del capitalismo mondiale iniziato negli anni ottanta del medesimo secolo.
Taluni aspetti “fascisti” dell’ideologia e del programma del Fronte nazionale francese – definito generalmente di estrema destra ma non senza ricorrere spesso ad altre specificazioni in termini di populismo e anti-europeismo – consistono di elementi circa i quali, in effetti e nel complesso, le scelte e le azioni concrete dei due principali partiti “repubblicani”, e in generale del personale politico di governo nell’Unione europea e in ciascuno dei suoi principali paesi membri, si distinguono solo marginalmente. A Parigi come a Strasburgo e Bruxelles, i partiti maggiori (più spesso alleati fra loro che contrapposti) usano generalmente un linguaggio amabile e rispettoso nei confronti dei milioni di disperati che fuggono vagando e spesso morendo da guerre e calamità di cui le loro politiche sono ampiamente responsabili. Ma si guardano dal mettere in discussione i presupposti essenziali di queste politiche; e in più trovano nel cassetto cifre esorbitanti per aiutare il governo di Ankara a tenere rinchiuse entro le sue frontiere due milioni di persone che fuggono dallo stupro della Siria (e a continuare eventualmente a svolgere una parte nel macabro festino). E si tratta di cifre molto maggiori di quelle che essi stessi negano, in nome del cosiddetto rigore, a chiunque pretenda di lottare contro la disoccupazione e a frenare e invertire lo smantellamento di ogni solidarietà sociale.
L’appello al contenimento della già molto contenuta immigrazione e della già molto carente integrazione interculturale costituisce del resto un elemento tardivo e non veramente determinate nel successo del Fronte nazionale francese, che sarebbe ancora una frangia estremista minoritaria se non si fosse trovato ad esprimere il rifiuto più forte ed elementare, attualmente presente nell’insieme dell’offerta di rappresentanza politica, rispetto alle politiche di Bruxelles e dei principi fondamentali che le ispirano in Francia e negli altri paesi dell’UE. Dunque, la sola difesa nei confronti dell’affermazione di partiti come quello di Le Pen è batterlo sul terreno della credibilità e della serietà, oltre che della fermezza, nel rifiuto di quei principi.
Ma la sfida francese riguarda anche la sinistra italiana, e la sollecita a chiarire definitivamente gli equivoci che tuttora la dividono e le impediscono di crescere, anche se qui la situazione è più complessa. Il Partito democratico non è l’analogo del Partito socialista francese: non già a causa del nome scelto a suo tempo (cosa che lo rendeva semplicemente più coerente nel panorama dell’esangue e snaturato socialismo europeo), ma semplicemente perché si è ormai trasformato pienamente, e non episodicamente, in un partito di centro-destra che mira a inglobare gran parte del personale politico della destra moderata, e ha già cominciato a farlo. Quindi l’appello dei tre sindaci, che vorrebbe rianimare fittiziamente il fantasma del mai veramente vissuto “centro-sinistra” (nell’ennesima e sempre più stanca versione della teoria del “voto utile”), non ha senso in quanto rivolto contro la destra. Assume senso soltanto (almeno di fatto) come chiamata a raccolta del ceto politico stabilito in termini di lealtà istituzionale, contro lo spauracchio del “populismo”. Ma, comportando percorsi comuni con un partito di governo la cui slealtà istituzionale (e costituzionale) è ormai conclamata e minacciosamente attiva, esprime un controsenso imbarazzante.
Ciò che soprattutto non si può continuare a fare è discettare in astratto su quanto e se la sinistra si possa alleare o restare alleata con il PD nei governi locali: una questione che somiglia strettamente all’altra disputa, paralizzante e suicida, circa lo scioglimento o la persistenza di attuali organizzazioni di partito e di attuali simboli di partito. Tutto tempo sottratto alla cura della proposta e del progetto da costruire insieme con le persone per difendere o più spesso conquistare il lavoro e la dignità, e allo sforzo di parlare insieme il linguaggio semplice da cui dipende la serietà e la credibilità di ogni più complessa e più responsabile elaborazione. Persone che lo sapevano fare, come Luciano Gallino, purtroppo non ci sono più; e, mentre c’erano, troppo spesso parlavano invano.
Raffaele D’Agata
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