La varietà delle visioni e delle motivazioni che portano a dare gli stessi giudizi e a volere le stesse cose – se sono le stesse– non è un ostacolo da rimuovere ma una risorsa sulla strada dell’unità e delle vittorie.
Come sarà l’assemblea di febbraio? Quanto forte e determinante sarà l’impronta dei soggetti che ne hanno creato e facilitato le premesse e le condizioni, e quanto piuttosto si riuscirà ad ascoltarsi e convincersi reciprocamente senza pregiudizi di bandiera? Dalla risposta a queste domande dipenderà il suo successo, che è vitalmente necessario.
Ciò che serve è sicuramente un attore collettivo mosso da interessi e da scopi di carattere preliminare e permanente entro un futuro ragionevolmente prevedibile: in altre parole, niente meno che un partito vero, degno del nome per il modo in cui si motiva ed agisce e non semplicemente (né necessariamente) per come si definisce e si articola. Non basta cioè un puro e semplice patto federativo tra partiti e movimenti esistenti. Ma che cosa significa questo concretamente? Che cosa bisogna essenzialmente assicurare, e che cosa conviene invece tralasciare come superfluo e ingombrante, per realizzare questo?
Un semplice patto federativo tra partiti e movimenti esistenti non basta, innanzitutto, perché non attirerebbe e non coinvolgerebbe le persone che specialmente hanno bisogno di un tale strumento: cioè quelle che sono lontane e deluse dalla politica, e specialmente le generazioni più giovani cresciute nel deserto culturale ed educativo dell’ultimo ventennio eppure confusamente alla ricerca di verità e di giustizia. Ed è Innanzitutto per loro che c’è bisogno adesso di una nuova casa dove stare con pari dignità e diritti. In secondo luogo, la permanenza di distinti processi organizzativi e decisionali autosufficienti, da unificare costantemente a posteriori, sarebbe superflua una volta verificata una concordia di fondo sulle ragioni non contingenti di stare insieme.
Ora, senza una vera e fondamentale concordia sulle ragioni non contingenti di stare insieme l’unità non sarebbe altro che un ennesimo espediente più o meno mascherato di elettoralistica e subalterna sopravvivenza alle condizioni ed entro i limiti stabiliti dal presente regime maggioritario e plebiscitario. Ma, appunto, una tale concordia, una volta accertata, rende superflua l’idea di complesse e ingombranti operazioni organizzative come quelle richieste da alcuni esistenti partiti e comprensibilmente rifiutate da altri: ossia, operazioni di scioglimento che sarebbero rese divisive e traumatiche (specialmente adesso e immediatamente) dal loro inevitabile impatto emotivo.
Come deve essere fatto – del resto – lo strumento di cui abbiamo bisogno? A che cosa propriamente deve servire? In che cosa deve necessariamente distinguersi per natura dalle macchine di potere e di consenso che ingombrano la scena in Italia oggi, e anche tuttavia da una troppo fedele ripetizione dell’esempio – comunque importante e ricco di lezioni – dei partiti storici del movimento operaio?
Il germe di una risposta si può trovare sviluppando creativamente la lezione di una storia di successo come quella del “partito di tipo nuovo” costruito in Italia nel 1945 in quel congresso di vera e propria rifondazione (sebbene sulle orme di quella già delineata a Lione nel 1926) che fu il V Congresso del Partito comunista italiano. Fu allora che l’accettazione di un programma (sia pure, allora, “sulla base” di una precisa filosofia, declinata implicitamente nel suo aspetto politico, eppure non soltanto politica) fu stabilita come sufficiente quanto necessario criterio di ammissione e di appartenenza.
Per interpretare e attualizzare oggi quella lezione, in un diverso contesto e con problemi diversi, si tratta allora di accentuare ancora più fortemente il ruolo del “programma” come criterio di adesione e di appartenenza, e di altrettanto estendere e rafforzare il riconoscimento della pluralità di visioni e di motivazioni che possono sostenerlo e promuoverlo. Ma proprio perciò sarebbe contraddittorio ogni influsso diretto o indiretto di qualunque versione dell’ideologia del “superamento delle ideologie” (“novecentesche” o no) che occorre finalmente individuare come uno dei più velenosi fondamenti della situazione storica da contrastare e superare. Nel quadro di un sereno e maturo politeismo, bandiere, simboli, memorie vive e anche forme associative, che rappresentano una preziosa continuità di messaggi e di linguaggi reali, devono trovare spazio e dignità riconosciuta entro la casa comune.
In particolare, quindi, non dovrebbe esserci divaricazione, né concorrenza negativa, tra gli sforzi in atto che mirano a rendere concreta e operante una “unità dei comunisti” sotto il nome e il simbolo troppo a lungo assenti del Partito comunista italiano, da una parte, e dall’altra il cantiere di un più largo ed efficace strumento disponibile per tutti coloro che oggi vogliono comunque riscattare le ragioni del lavoro, della democrazia e della pace. Arricchita dalla presenza visibile e anche strutturata (nel rispetto di regole comuni) degli eredi e dei continuatori di un grande patrimonio di idee e valori di umano progresso, abbiamo bisogno di costruire una forza di resistenza e di lotta contro la dittatura transnazionale del capitale finanziario, e contro i suoi agenti in Italia, che per definizione sia né comunista (anche in relazione con le troppo numerose e contraddittorie pretese di appropriazione del termine nella storia recente) né tanto meno anticomunista (almeno se per anticomunismo, più o meno larvato, si intende l’individuazione pregiudiziale di una negatività).
Il punto allora è il programma: non semplicemente per questa o quella più o meno importante scadenza elettorale, ma come concorde riconoscimento e definizione di una situazione strutturale e della direzione verso cui superarla. Un ennesimo fallimento sulla via dell’unità sarebbe oggi una catastrofe. Piuttosto che su chi o che cosa debba o non debba preventivamente sciogliersi, o su quali bandiere e simboli possano o non possano sventolare, meglio rischiare divisioni e perdite – per esempio, e fondamentalmente – confrontandosi su che cosa siano oggi la pace e la sicurezza collettiva e in quale modo ciò riguardi ormai da tempo la NATO; oppure su quale debba essere oggi un giusto e necessario rapporto tra denaro, lavoro e bisogni, e che cosa ciò comporti quando si parla dell’euro. Una volta stabilito che tanto la NATO quanto le presenti regole monetarie dell’Unione Europea sono da superare, per dare luogo rispettivamente a strutture di sicurezza collettiva e di reale e larga cooperazione rivolta all’interesse dei più, l’inevitabile dubbio e il necessario confronto circa quanta pressione esercitare, e quando, sul presente stato di cose, saranno normale anche se talvolta difficile esercizio di democrazia interna.
E nella democrazia interna della nuova casa comune ogni tessera deve naturalmente avere lo stesso peso, per nulla aumentato o diminuito dalla contemporanea appartenenza ad altre organizzazioni. Premettere a ciò adesso la condizione che nessuna altra organizzazione possa contemporaneamente esistere significa dare per scontata l’esistenza di divisioni potenzialmente insuperabili. Ossia dichiarare l’idea dell’unità già sconfitta in partenza: il potenziale fattore disgregante è infatti costituito da eventuali divisioni sulle scelte fondamentali, e nessuna scorciatoia organizzativa le potrebbe sanare qualora ci fossero. Dunque, si parli di questo. E ciò che è unito si unisca, naturalmente e senza ingessature.
Raffaele D’Agata
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Il V Congresso del Partito comunista per POLITICA NUOVA intese la COLLABORAZIONE con LE FORZE SOCIALI BORGHESI : inizia da qui il DECLINO del progetto di una SOCIETA’ COLLETTIVISTICA. ACHILLE OCCHETTO, sciogliendo il PARTITO COMUNISTA, ha portato alla sua conclusione DISFACIMENTO, che ebbe il suo inizio nel 1945.
La tesi della continuità tra il V Congresso e l’esito della Bolognina (o, soprattutto, del post-Bolognina) è sostenuta anche e innanzitutto da tutti coloro che all’interno del PD (!) presumono e pretendono di rappresentare, appunto, quella continuità (cominciando dall’abuso della testata e del nome di Gramsci nel loro giornale). Mi stupisco che si possa condividerla. Certo, il percorso di avanzata democratica verso il socialismo, che ebbe allora una spinta fondamentale, fu sconfitto. Ma per vedere che era una cosa seria e importante basta pensare che, per sconfiggerlo, furono necessarie, bombe, trame, depistaggi, provocazioni sanguinose, assassinii politici, e insomma quel colpo di Stato strisciante di cui il presente regime è l’effetto. Chiaro, se si fosse fatto come in Grecia loro avrebbero fatto prima e avrebbero avuto meno bisogno di mascherarsi.