Le culture politiche di sinistra mostrano oggi difficoltà ad esprimere idee semplici e chiare, e tanto meno condivise, su questi temi fondamentali. E le culture di estrema destra, anche mediante operazioni di sofisticato trasformismo, sembrano proporsi di colmare il vuoto.
La sconfitta e la conseguente eclissi del movimento operaio mondiale alla fine del ventesimo secolo appare sempre più chiaramente e non casualmente accompagnata dall’eclissi di una quantità di altri aspetti essenziali di ciò che lungamente è stato concepito e riconosciuto sotto il termine di civiltà moderna. Uno dei primi che intuirono questo fu Immanuel Wallerstein in una serie di saggi pubblicati in italiano nel 1995 (“Dopo il liberalismo”), che illustrano il complesso di processi e avvenimenti mondiali culminati nella dissoluzione del sistema sovietico come un’attiva confutazione dell’idea classica di modernità, almeno nel suo essenziale aspetto integralmente umano (piuttosto che meramente tecnico), ossia come movimento di emancipazione dello spirito umano da vincoli di sottomissione, d’ignoranza e di paura. Era, naturalmente, l’esatto contrario del molto più noto “Te Deum” filosofico intonato contemporaneamente da Francis Fukuyama allorché annunciava qualcosa come il compimento della storia proprio secondo quelle medesime promesse e aspettative. Quella di Wallerstein era naturalmente l’interpretazione giusta (come lo stesso Fukuyama doveva più tardi, se non proprio ammettere, almeno implicitamente non escludere osservando i fatti).
La struttura del sistema internazionale e il suo tendenziale dinamismo, così come si manifesta in modo abbastanza consolidato nel secondo decennio del ventunesimo secolo, mostrano con evidenza aspetti essenziali di tutto questo. Appare infatti chiaro che la moderna idea di Stato, e con essa la forma dello Stato-nazione sovrano come unità di potere legittima e dotata di rilevante efficacia regolativa, non è stata superata in avanti verso forme di cooperazione pacifica e trasversale. Piuttosto, essa appare svuotata soltanto per dare luogo, in qualche modo a ritroso, all’efficacia di agglomerazioni di potere sostanzialmente neo-feudale. Queste, certamente, si servono di alcune tecniche proprie della moderna economia di mercato, ma svuotate di ogni storica e umana potenzialità di progresso. E muovono sovranamente apparati di potenza aventi ancora spesso la forma di Stato (per quanto anch’essa ormai ampiamente svuotata) e tuttavia sempre più spesso la forma, a sua volta neo-feudale, di sistemi di lealtà gerarchico-tribali o di imprese militari private che agiscono in una dimensione contigua a quella del crimine organizzato. L’attività militare è infatti una delle principali e più incisive manifestazioni della natura di tali attori presi nel loro insieme, ossia in uno spettro che va da attori aventi ancora comunque forma di Stato al puro e semplice crimine organizzato (con varie e complesse contaminazioni e ibridazioni intermedie).
Negli ultimi decenni (ossia a partire dagli anni Settanta del Novecento), la cooptazione di rilevanti e sempre più determinanti soggetti di cultura non occidentale, ma accentuatamente retriva e autoritaria, entro l’élite finanziaria transnazionale così allargata, ha fortemente accentuato questa combinazione di modernità tecnica e anti-modernità ideologica, larvata ma efficace in Occidente, e tragicamente esplicita in Medio Oriente, dove lo stesso Stato d’Israele (dato il carattere mitico e ancestrale, oltre che implacabilmente esclusivo, della sua idea fondante) rappresenta tutto fuorché un’eccezione. Apparentemente in contro-tendenza nel quadro di una generale eclissi del modello dello Stato-nazione sovrano, e anzi ispirato anche (come Tony Judt ebbe il merito di sottolineare) a una tardiva riscossa del modello stato-nazionalista sinistramente trionfante in Europa dopo la Prima guerra mondiale, lo Stato d’Israele costituisce cioè oggettivamente una sfida non irrilevante ad ogni fondazione laica dell’idea di diritto e di cittadinanza, e piuttosto tende a produrre una legittimazione più o meno diretta di ulteriori e diverse contaminazioni, comunque retrive ed eventualmente violente, tra credenza religiosa e volontà politica di potenza. Negli ultimi decenni, tali contaminazioni si sono propagate fino a diventare fenomeni di massa senza incontrare significative resistenze, essendosi anche rivelate utili a contenere sviluppi della democrazia incompatibili con i vincoli di sistema mediante l’ancestrale strumento della paura, non importa se del terrorismo (da una parte) o dell’inferno (dall’altra).
Naturalmente questi processi reali confutano in modo radicale l’ideologia dominante del nuovo secolo, imperniata sul concetto di globalizzazione come ineluttabile compimento della modernità mediante una crescente preminenza di reti flessibili e trasversali di rapporti contrattuali su qualunque autorità regolativa dotata di forza impositiva, democratica o no. Se si guarda bene, comunque, non si tratta che di una nuova confutazione del mito che identifica l’idea di capitalismo con quella di mercato come regno di libere contrattazioni alternativo e antitetico rispetto a rapporti di forza o di comando. Si tratta insomma semplicemente di una nuova conferma della stretta ed essenziale connessione del capitalismo con la forza (in una certa fase, con quella dello Stato) e particolarmente con il suo aspetto militare. Nella situazione presente, tuttavia, lo svuotamento e l’eclissi della forma moderna dello Stato nel quadro della cosiddetta globalizzazione rende il nesso tra capitalismo e guerra molto più complicato, e difficile da affrontare, di quanto fosse esattamente un secolo fa, cioè allorché la rivoluzione sovietica lo affrontò (tutto sommato) con una certa efficacia.
Schematicamente, infatti, la parola d’ordine leniniana della trasformazione della guerra interimperialista in guerra civile rivoluzionaria non ha senso concreto nella realtà odierna per la semplice ragione che la guerra prodotta dalle presenti contraddizioni del capitalismo è già una guerra civile, se con questo termine tecnico vogliamo indicare l’assenza o comunque una molto ridotta rilevanza delle forme del diritto internazionale classico, dei soggetti da questo riconosciuti, e delle pratiche conseguenti, nel reale svolgimento dell’acuta e violenta conflittualità che contraddistingue il capitalismo contemporaneo in termini globali. Circa la lettura di questi fenomeni storici, e soprattutto circa le conseguenze da trarre in relazione ad essi, le culture politiche di sinistra mostrano difficoltà ad esprimere idee semplici e chiare, e tanto meno condivise. Ed ecco che le culture di estrema destra, anche mediante operazioni di sofisticato trasformismo, sembrano proporsi di colmare il vuoto proponendo una ricezione di istanze rivoluzionarie proprie della tradizione del movimento operaio entro una sintesi egemonizzata dai loro schemi fondamentali. L’operazione non è nuova: fu già tentata dalle correnti nazionalbolsceviche nella Germania di Weimar (solo in parte confluite poi nel nazismo), e naturalmente costituì uno dei tratti originari, e poi periodicamente riaffioranti, dello stesso fascismo italiano. Oggi tuttavia sembra più inquietante anche a causa di una certa dispersione, di un certo disorientamento intellettuale, e della conseguente debolezza, di ciò che resta o vorrebbe o potrebbe riprendere vita nel pensiero e nella prassi del socialismo.
Gran parte delle culture politiche di destra più o meno estrema, e dei movimenti politici (non sempre dichiaratamente tali) che esse ispirano con crescente successo in Europa, tendono in effetti con un certo successo a rendersi interpreti del diffuso bisogno di Stato che appare prodotto entro larghi strati popolari da decenni di egemonia (più o meno passivamente interiorizzata anche in versione “liberal”) del reaganismo-thatcherismo. I loro bersagli più diretti e immediati sono regole e autorità transnazionali come quelle che si manifestano e agiscono nell’Unione Europea. Ma recentemente anche la NATO, come impedimento a politiche estere indipendenti ed espressione del predominio delle posizioni chiave nel controllo del sistema globale tuttora situate nel mondo anglosassone, è fatto oggetto, da destra, di ostilità crescente.
Non sempre, però, tali orientamenti coincidono o danno luogo alle medesime conseguenze. Se infatti una parte consistente delle correnti di estrema destra mira a recuperare le prerogative e le funzioni di uno Stato attivo e autorevole (ma piuttosto, nel loro caso, autoritario) entro la vecchia cornice dello Stato-nazione (come particolarmente nel caso del Fronte Nazionale in Francia), alcune altre proiettano la medesima esigenza sulla scala dell’Europa, a sua volta identificata con un’Unione Europea sollecitata a dotarsi di una più coesa identità e di un vero e proprio patriottismo. Queste ultime posizioni, a loro volta, si dividono: alcune immaginano un’alleanza “euroasiatica” con la Russia di Putin (in qualche modo nel solco della tradizione “nazionalbolsevica”), che ammirano proprio come riscossa dell’idea di Stato sovrano e culturalmente distinto; altre, invece (nel solco della corrente principale, originaria e vincente, dell’ideologia nazista) vedono proprio nella Russia il nemico ereditario come antitesi mitica dell’ipotizzata e vagheggiata “identità” europea. Questo, tra l’altro, spiega il curioso e inquietante fenomeno costituito dalla presenza su entrambi i fronti opposti della guerra civile ucraina di figure motivate da schemi e mentalità di estrema destra, sia che si tratti di avventurieri, o di esaltati, o semplicemente di criminali (soprattutto, questi ultimi, dalla parte di Kiev).
Naturalmente questo stato di cose complica notevolmente la ricerca e la scelta di un messaggio politico chiaro che possa giustificare la presenza di una sinistra nel panorama politico europeo come espressione dei punti di vista e dei bisogni della maggioranza delle persone comuni, che hanno poco da guadagnare e hanno già perduto molto entro l’attuale sistema di neo-feudalesimo finanziario globale. I tentativi di restituire alla sinistra la forza e l’influenza che ebbe a lungo in Europa nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale (generalmente finora poco fortunati, con la pur contraddittoria eccezione della Grecia e, solo in parte, della penisola iberica) corrono costantemente o il rischio di echeggiare su altri toni e in modo meno riconoscibile i messaggi dei già affermati movimenti popolari di destra o quello opposto di rifluire come poco interessante e poco utile voce critica entro le strutture portanti del sistema dominante.
Molto di questa semi-paralisi sembra da ricondurre a perdita o confusione di memoria quanto alle origini della situazione presente. Una parte consistente della sinistra del tardo Novecento non percepì la catastrofe del sistema internazionale scaturito dalla guerra mondiale antifascista come parte di una propria comune sconfitta. Anzi, le forze politiche che oggi pretendono di rappresentare la continuità del socialismo europeo (spesso anche nel nome) si riconobbero senza troppi dubbi nel campo dei vincitori mentre quella catastrofe aveva luogo (tra i pochi che infine ebbero dubbi si deve ricordare Willy Brandt nei suoi ultimi anni). E la loro introiezione quasi euforica delle strutture elementari del sistema globale è arrivata a un livello tale che ricorrenti e tendenzialmente costanti forme di collaborazione governativa con partiti anche ufficialmente conservatori (e comunque nel Parlamento dell’Unione Europea) si presentano da anni piuttosto come una regola che come un’eccezione. A loro volta, i soggetti organizzati che cercano di rappresentare la critica e l’opposizione nei confronti del sistema in nome di principi elementari di solidarietà e di eguaglianza oscillano fortemente senza trovare una chiara sintesi tra pacifismo assoluto (solo limitatamente capace di passi ulteriori dopo l’affermazione della tesi) e rischiose scelte di campo a favore del “nemico del nemico”, tali da includere a volte perfino la Corea del Nord; e comunque, più comprensibilmente, la Russia di Putin.
E certamente, un aspetto fondamentale della più recente evoluzione del sistema internazionale è costituito proprio dalla riemersione della Federazione Russa come potenza autonoma e soprattutto come Stato capace di contraddire la tendenza alla frammentazione neofeudalde del potere, tanto nel suo aspetto transnazionale quanto nella sua specifica e particolarmente accentuata manifestazione proprio in Russia negli anni di El’cin. Naturalmente, tra i fattori e gli aspetti determinanti di questo sviluppo ci sono processi di selezione conflittuale, e di conseguente concentrazione, entro la dominante oligarchia postsovietica; ma ciò non vieta di riconoscere nella Russia contemporanea una certa riscossa dello Stato nei confronti di questa (nel suo insieme, e nelle sue connessioni transnazionali).
Come principale e vero e proprio Stato successore dell’Unione Sovietica, insomma, la Federazione Russa ripropone (scisso dal composto) uno dei due elementi di ciò che fu il potere temporale dell’ideale comunista, ossia il “braccio secolare” già caratterizzato dall’idea imperiale del “russkij mir”. Privata ora del controllo autoritario del clero che si adoperava a piegarlo contraddittoriamente al servizio degli ideali di libertà eguale del movimento operaio (irrigiditi in dottrina dogmatica), in questa nuova metamorfosi la costruzione statuale moscovita appare comunque esposta a possibili manipolazioni non solamente da parte dell’oligarchia dominante e solo parzialmente ridimensionata, ma anche da parte di linguaggi politici ibridi e malsani come l’ “euroasiatismo” di Dugin. Nello stesso tempo, non tutti gli elementi della precedente simbiosi dello Stato moscovita sembrano essere restati privi di vitalità come fattori cognitivi e motivazionali. In particolare, la sua diplomazia mostra di avere interiorizzato non superficialmente le lezioni della grande scuola dei Litvinov e dei Gromyko, e in effetti si è recentemente rivelata (insieme, e non a caso, con quella della Santa Sede romana) la meno demente e la meno irresponsabilmente disastrosa tra quelle delle maggiori potenze mondiali.
Per contendere con efficacia all’estrema destra intellettuale e politica una tendenziale e malauguratamente possibile egemonia sulla critica e sulla contestazione delle idee e delle posizioni oggi determinanti nel sistema internazionale, dunque, è necessaria non soltanto un’attenta lettura dei processi qui tratteggiati, ma anche una memoria non mistificata e un fermo radicamento negli ideali di universale emancipazione umana che costituiscono l’essenza profonda della moderna idea di civiltà. Parafrasando una molto importante lezione proveniente dall’era sovietica (anche se vistosamente contraddetta lungo il reale corso di questa), si tratta insomma di “raccogliere la bandiera” delle veramente eguali libertà civili, delle stesse veramente eguali libertà economiche, e della cooperazione organizzata tra paesi e popoli, “gettata a mare” dalle élites dominanti nel presente sistema internazionale.
Sulle concrete articolazioni di una tale impresa, naturalmente, c’è molto da ragionare ancora.
Raffaele D’Agata
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