La questione cruciale non è l’euro (e nemmeno il cosiddetto sovranismo): sono regole e istituti dell’economia globale (garantiti anche dalla NATO e dalle sue guerre) che minacciavano la vita e il lavoro delle persone già prima dell’euro, e continuerebbero a farlo anche dopo l’euro. E una politica che metta in agenda soltanto le cose oggi apparentemente possibili (che sono tutte comunque disastrose) non è una politica di cui la gente abbia bisogno.
L’Unione Europa sta colpendo sé stessa più duramente e più radicalmente di quanto qualunque forza di opposizione alle sue autorità e alle sue regole potesse pensare di riuscire a fare fino a ieri, e possa tuttora. Dovremmo probabilmente cominciare a parlare un po’ meno per sostenere oppure negare la possibilità di riformarla dall’interno e un po’ più, invece, del modo di riempire il vuoto che i suoi fallimenti stanno cominciando a creare.
Apparentemente ciò che sta facendo vacillare un suo pilastro fondamentale, come il trattato di Schengen sull’abolizione delle frontiere interne, è un fattore di origine esterna. Ma in realtà lo sterminato flusso migratorio che preme dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord attraverso il Mediterraneo e i Balcani è stato largamente causato da azioni, o da mancate azioni, che conseguono in modo coerente e necessario da elementi costitutivi essenziali di questa “Europa reale”.
Uno di questi elementi è la stretta connessione con l’alleanza militare nordatlantica che sta tra i principi fondamentali della sua stessa costituzione scritta (secondo l’articolo 42 del Trattato sull’Unione Europea). La massiva devastazione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, cominciata nel 1991, coincide cronologicamente con la nascita, lo sviluppo e l’allargamento dell’Europa di Maastricht sui fondamenti di un precedente processo di integrazione economica e politica che aveva avuto natura e implicazioni profondamente diverse in un contesto mondiale profondamente diverso. Durante questa fase, quasi tutti i governi europei, e di conseguenza quel tanto che esiste in tema di politica estera e di sicurezza dell’Unione, dapprima si sono mossi più o meno di buon grado sulla scia del violento e caotico interventismo dei governi americani guidati dai due Bush e da Clinton (con qualche timido e inefficace tentativo di dissociazione in occasione della finale aggressione contro l’Irak nel 2003). Successivamente, alcuni di essi (invertendo in qualche modo le parti) hanno gettato tutto il peso di cui disponevano per trascinare in ulteriori criminali avventure l’amministrazione Obama (così da concorrere con formidabili e decisivi apparati di potere negli Stati Uniti nel rendere pressoché inefficaci le esitazioni di questa, e i suoi stessi tentativi di resipiscenza).
L’effetto consolidato di tutte queste imprese è il crollo dei pilastri di qualunque autorità legittima e riconosciuta in vasti e popolosi territori come quelli della Siria, dell’Irak e della Libia, con onde d’urto di destabilizzazione e anarchia violenta che investono aree molto più vaste. Dalla Libia verso l’intera Africa occidentale ed oltre lungo le antiche vie trans-sahariane, e dall’Irak invaso e decomposto verso l’insieme della Mezzaluna Fertile e del più vasto mondo arabo, ciò che si muove sono imprese militari alimentate da immensi arsenali sfuggiti a ogni controllo, e animate da avidità, disperazione e fanatismo (in diverse combinazioni tra loro, e con le strategie di medie potenze regionali acquisitive e ciniche) nel vuoto di sistema prodotto dal miope e caotico interventismo occidentale. Verso l’Europa, questa disseminazione di forze distruttive produce scintille di terrore che sembrano fiamme inaudite alla protetta e quotidiana normalità che ancora predomina fra noi, ma non necessariamente ai milioni di persone che vivono quotidianamente tra estese ed altissime fiamme, e sono spinte da disperazione a cercare comunque riparo nei nostri paesi.
Questa catastrofe rappresenta il culmine di un ciclo pluridecennale, e nessuno degli elementi che hanno predominato durante questo ciclo può essere parte della soluzione, essendo invece tutti parte del problema. Il ferreo vincolo atlantico (che ha impedito di prevenire e anche largamente causato il caos del Medio Oriente, la conseguente tragica pressione sulle frontiere di Schengen, e i disumani egoismi più o meno nazionali che rappresentano l’attuale risposta) non ha più il senso che sembrava avere nelle fasi più mature della competizione bipolare Est-Ovest come elemento di stabilità di quel sistema. Piuttosto, esso rivela apertamente ormai da tempo il vero senso che aveva già allora. Soprattutto dopo la crisi mondiale degli anni settanta, in effetti, l’Alleanza atlantica serviva meno che mai a difendere l’Europa da una minaccia ormai non soltanto ipotetica ma del tutto inesistente. Piuttosto, la sua funzione si chiariva come quella di garantire e proteggere l’integrazione sempre più stretta tra l’oscuro e retrivo potere dei maggiori detentori di rendite finanziarie in Medio Oriente e una ricomposizione del sistema capitalistico mondiale intorno a un dollaro fluttuante ma reso conveniente (da dosi massicce di lassismo speculativo) per un variegato blocco di detentori di potere finanziario a loro volta capaci di indurre consenso passivo entro diversi gradi di svuotamento e di depotenziamento della democrazia. Blindare anche con il ferro e con il fuoco questa stravagante e instabile struttura del potere economico e geopolitico globale, mentre i suoi effetti disastrosi diventano una massa critica difficilmente sopportabile per l’umana convivenza sulla terra, è ormai la sola funzione del singolare anacronismo rappresentato dalla NATO.
Dunque Il primo problema dell’Europa, e della sua crisi tanto ormai di stabilità quanto di democrazia, non è l’euro come tale; e neanche quello dei luoghi e degli spazi geopolitici più appropriati per l’esercizio della sovranità democratica oggi quasi inesistente (altre forme di sovranità, come mostra oggi l’orrore delle frontiere, e come le guerre di Sarkozy e di Hollande hanno già ampiamente mostrato, sono invece vive e in buona salute). Nell’ordine delle sfide da affrontare, la struttura globale del potere e della ricchezza, garantita dalla NATO, viene largamente prima: con essa, da una parte ovviamente la stessa NATO o almeno intanto le sue attuali regole conosciute e coperte, e dall’altra regole e istituti dell’economia globale che minacciavano già la vita e il lavoro delle persone prima che l’euro ci fosse, e continuerebbero a farlo anche senza l’euro.
Con o senza l’euro, e possibilmente senza perdere tempo nell’architettare o peggio ancora proclamare o promettere complicatissime e potenzialmente disastrose operazioni di cambio di moneta, la sfida da lanciare è contro le regole del sistema bancario e finanziario (una sfida che noti eventi rendono oggi popolare e sanamente demagogica), mirando innanzitutto ad estirpare il cancro delle scommesse speculative su cui l’intero sistema ormai da tempo si sostiene. Una conveniente ossia massiccia dose di pubblicizzazione e di reale responsabilizzazione delle funzioni creditizie, associata con tali misure, può essere sostenuta oggi da un ampio consenso, anche se ciò non la rende affatto (per note ragioni) molto più facile da realizzare. D’altra parte, una politica che metta in agenda soltanto le cose oggi apparentemente possibili (che sono tutte comunque disastrose) non è una politica di cui la gente abbia bisogno.
Del resto, non ogni forma di puntuale disobbedienza alle regole demenziali dell’Unione, che fosse intrapresa già prima di ottenere la loro sostituzione con altre più ragionevoli, comporterebbe immediatamente alti costi. Ritorsioni più o meno spontanee sui mercati finanziari dove si forma il prezzo del servizio del debito pubblico di un paese sono certamente da prevedere qualora un suo governo democraticamente eletto avesse il coraggio di sbeffeggiare con sacrosanti “aiuti di stato” (sul modello della NRA rooseveltiana e della stessa IRI) il totem della concorrenza (strano termine solitamente applicato al predominio di una ristretta cerchia di potentati economici e finanziari privati che fingono di competere, lo fanno talvolta realmente mediante colpi bassi, e premono con successo sulle pubbliche istituzioni onde prevenire sgradevoli interferenze dell’interesse pubblico). Ma non è detto che queste ripercussioni, ed altre simili su altri aspetti critici del suo equilibrio interno, sarebbero violente e devastanti come quelle sicuramente comportate dalla reintroduzione di una moneta nazionale: soprattutto se si smette di considerare eventuali restrizioni alla mobilità dei capitali più clamorose e gravi delle già esistenti e inaccettabili restrizioni alla mobilità degli esseri umani.
Un’agenda simile può suscitare largo consenso democratico, e nello stesso tempo comporta il rischio altissimo di deludere un tale consenso dato il peso schiacciante delle forze da contrastare. Si tratterà perciò di riconoscere in anticipo questo rischio, e presentarlo onestamente. Se c’è una speranza per la democrazia e per la civiltà stessa, questa dipenderà anche dalla volontà delle persone di rischiare e di soffrire da libere piuttosto che scivolare ottusamente da schiave nella barbarie prossima ventura.
Raffaele D’Agata
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