A Roma (e non solo) la sinistra deve certamente proporsi di parlare a gran parte della città (come del paese). Nomi-simbolo degni di stima, provenienti da un altro campo, possono apparire utili a questo, a certe condizioni (che non sembrano esserci).
Per chiudere finalmente il tema (temporaneamente riaperto) della candidatura di sinistra alla carica di sindaco di Roma, appare possibile individuare alcuni punti fermi fondamentali.
Innanzitutto, l’indicazione della persona del candidato sindaco non era e non è la prima cosa. Lo sarebbe solamente se anche la sinistra condividesse una logica di competizione maggioritaria e personalizzata, ossia la logica della politica ormai decrepita (sebbene venduta come “nuova” da oltre un ventennio) che la sinistra ha proprio il compito di spazzare via e di superare. Da questo punto di vista, la candidatura di Stefano Fassina, pur non essendo partita nel migliore dei modi (cioè come ancora un po’ figlia di quella vecchia politica) ha avuto il merito di funzionare (e, appunto, di crescere) generosamente al servizio di un diffuso risveglio di protagonismo popolare, nella costruzione di una reale alternativa di idee e di programma. E proprio questa costruzione è ciò che costituisce la prima cosa.
In secondo luogo, questo nuovo protagonismo popolare deve certamente essere in grado di parlare se non a tutta la città (ovviamente) comunque a gran parte: perciò anche ai delusi e sconcertati dalle ambiguità grilline e dall’arrogante politica antipopolare del PD (tanto nella città quanto, in prospettiva, nell’intero paese). Ciò comporta certamente attenzione e rispetto anche verso parti e ambienti di personale politico più o meno autorevole che sia stato finora interno a quella formazione e perfino che lo sia tuttora sebbene con crescente disagio, anzi con insofferenza ormai quasi estrema. L’idea che questa o quella personalità prestigiosa, proveniente da quel campo, e indicata come candidato sindaco, possa costituire un segnale vincente da rivolgere a più ampie parti della città (e, in prospettiva, del paese) si presenta suggestiva e merita qualche attenta considerazione. Tuttavia le condizioni che permetterebbero di adottarla e praticarla in modo davvero vincente (ossia né improvvisato né soprattutto subalterno e sostanzialmente rinunciatario) sono numerose e difficili (al momento, quasi impossibili) da realizzare.
La prima di queste condizioni sarebbe che una tale personalità abbia il tempo e la volontà di mettersi efficacemente e fedelmente al servizio del lavoro iniziato. La seconda è che una tale personalità rompa chiaramente e formalmente con il PD e si schieri decisamente in una posizione concorrente e alternativa. La terza condizione è che la brusca novità non disturbi e non freni lo sviluppo delle energie di entusiasmo e di motivazione che sono indispensabili – ben più della stessa visibilità mediatica – per una campagna elettorale tanto difficile e controcorrente. Di queste tre condizioni, l’ultima è la più improbabile di tutte.
Infine, la capacità di parlare a gran parte della città (e, in prospettiva, del paese) significa oggi in primo luogo capacità di convincere quell’abbondante metà delle cittadine e dei cittadini che ormai si tengono stabilmente lontani dall’esercizio del voto. Il nuovo protagonismo popolare e la mobilitazione delle reti di solidarietà civica e di volontariato (in particolare, nella resistenza al potere delle mafie), che si sta manifestando a Roma in queste settimane, è una risorsa essenziale anche in questo senso. E lo sviluppo di questa risorse sembra richiedere continuità, perciò estrema prudenza prima di immettere (“dall’alto”, in qualche modo) segnali di cui sarebbe ben difficile elaborare gli inevitabili riflessi ambigui.
Raffaele D’Agata
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