Quelle rozze abominevoli cinque stelle

La storia è stata generosa offrendo, come sostituto nel ruolo cui siamo mancati, un fenomeno complesso e ambiguo e tuttavia non estraneo alla democrazia, anzi globalmente assai meno pericoloso per essa se messo a confronto con il disegno di regime rappresentato ora immediatamente dal finto duello Sala-Parisi a Milano e dal già cessato finto duello Giachetti-Marchini a Roma.

Ciò che resta o sta cercando di rinascere come sinistra politica italiana deve adesso scegliere la posizione da prendere in relazione a una cosa molto grossa, impossibile da immaginare soltanto un decennio fa, eppure apparentemente destinata a segnare la storia del paese nel futuro prevedibile, che si dà lo strano e beffardo nome di Movimento Cinque Stelle. Sarebbe molto sbagliato continuare a fingere di pensarci (come spesso è accaduto) piuttosto che pensarci veramente. In ogni caso, l’imminenza del secondo turno, che può elevare a sindaco di Roma una giovane donna appartenente a quel movimento, impedisce materialmente di farlo.

Cercando di riassumere con un senso ciò che è ampiamente noto, l’origine immediata di questa cosa fu l’iniziativa coordinata di un comico di successo e di un manager fantasioso e spregiudicato in una fase di grave malessere e anzi di avanzato disfacimento del tessuto politico democratico nel cuore del ventennio berlusconiano, che rappresenta l’origine più profonda ossia il terreno fecondo. Ciò che favoriva e intensificava il disfacimento era il comportamento ambiguo e incerto di quella che era allora l’opposizione democratica in tutte le sue anime e sfumature, anche e specialmente nelle brevi fasi di successo elettorale e di conseguente possibile attività di governo durante quel terribile periodo: dall’infausta Bicamerale dalemiana alla passiva ricezione dell’illegittima manipolazione del sistema elettorale nota come “Porcellum”, cui le diverse componenti del cosiddetto centrosinistra finirono ben presto per adattarsi con malcelato quanto miope opportunismo. La frana diventò una voragine senza fondo all’inizio di questo secondo decennio del secolo, contrassegnato da una crisi economica mondiale non meno se non più grave di quella degli anni trenta del secolo precedente, alla quale la sinistra politica italiana rispose con molte deprecazioni e denunce accompagnate da una effettiva assenza d’iniziativa e di lotte, quasi senza eguali nel resto del mondo capitalistico sviluppato.

In tale situazione, un capo dello Stato decisamente infedele allo spirito della storia repubblicana, e solo tiepidamente fedele alla Costituzione stessa, mise fine al ventennio berlusconiano, mediante un’operazione di palazzo, soltanto per farsi promotore e garante di una gestione della grande crisi che fosse inflessibilmente conforme alle esigenze e alle indicazioni di quella stessa grande finanza transnazionale che la aveva provocata: più o meno come il monarchico HIndenburg già fece negli ultimi anni della Repubblica di Weimar. Giorgio Napolitano impose cioè senza difficoltà a un parlamento succube (attraverso il comportamento liberamente succube del principale partito ancora teoricamente legato al mondo del lavoro, a sua volta incamminato sulle orme della SPD del 1930) governi d’emergenza forti della propria fiducia e di quella del mondo finanziario internazionale. Da parte loro, i partiti di denominazione comunista e le altre forze di dichiarato orientamento antisistemico tentarono una seconda volta e altrettanto frettolosamente nelle elezioni politiche generali del 2013, dopo la disfatta del 2008, di raccogliere insieme un congruo numero di voti d’opposizione. In quel secondo caso lo fecero inserendosi con una zavorra di riserve e tentennamenti in un generoso quanto improvvisato e poco chiaro tentativo di rinnovamento dell’offerta di rappresentanza politica rivolta all’indignazione popolare. Poiché la politica non ammette vuoti, né stuccature sbrigative, l’indignazione popolare trovò invece altri canali per manifestarsi ed agire: innanzitutto, cioè, la fuga dalle urne (come tuttora), e in secondo luogo ovviamente il voto massiccio che fece del Movimento Cinque Stelle addirittura il partito di maggioranza relativa.

Come reagì Napoliltano-Hindenburg a questo sviluppo? Diversamente dal suo illustre modello, non aprì la strada del governo al nuovo fenomeno di massa. Ma per quale ragione non lo fece? Fece forse così essendo mosso da dubbi circa la fedeltà di quella nuova gente alle istituzioni di cui egli era formalmente garante, per quanto fondati tali dubbi fossero, e per quanto la cosa lo preoccupasse veramente? Certamente no. Napolitano si comportò in quel modo perché quella gente nuova non dava sufficienti garanzie circa il genere di stabilità finanziaria che era concepito e voluto entro il suo ambiente di riferimento, diversamente da quanto accadeva in Germania all’inizio del 1933, e mettendo ovviamente da parte altre differenze meno importanti come il grado di attaccamento alla Costituzione e la presenza o l’assenza di ideologie razziste e di pulsioni belliciste. La sua risposta, piuttosto, consistette nel promuovere e favorire uno sviluppo (esso sì)   realmente eversivo, in quanto esplicitamente rivolto al cambiamento della Costituzione in senso anche formale, e conforme alle esigenze dell’oligarchia finanziaria. Favorì cioè la presa del potere da parte di un manipolo di giovani avventurieri guidati da un ragazzone arrogante, che ebbe luogo mediante una serie di mosse e di manovre in rapida sequenza includenti di fatto la propria stessa inusitata riconferma al Quirinale.

Da allora ad oggi, l’orientamento del malessere popolare verso il Movimento Cinque Stelle, piuttosto che verso forme di rappresentanza basate sulle culture e sui valori classici della sinistra italiana e non solo, non ha fatto che accentuarsi. Tra le cause si può riconoscere tanto la persistente assenza dal parlamento di partiti che si richiamino coerentemente a quei valori e a quelle culture quanto l’ambiguità di quella parte di opposizione genericamente definita radicale che vi è presente in virtù di compromessi con le stravolte regole del gioco, e del resto comprende alcuni che continuano a voler dialogare con chi le stravolge. Ma, molto più recentemente, sembra si debba aggiungere il percorso affannoso e contraddittorio dell’ultimo tentativo di rilancio di una proposta di rappresentanza unica a sinistra, avviato in occasione delle elezioni del 2014 per il parlamento europeo con generoso entusiasmo non sempre accompagnato da chiarezza di messaggio: non sempre capace, cioè, di distinguersi, in modo semplice (ossia ben riconoscibile a distanza) dal coro di lealismo ufficiale e retorico nei confronti di ciò che il potere si ostina abusivamente a chiamare “Europa” mentre costituisce effettivamente l’oggetto di una crescente e non inspiegabile collera popolare.

La presente e persistente debolezza della sinistra politica italiana deriva insomma da mancati appuntamenti con la storia: dalla partecipazione tanto distruttivamente querula quanto opportunisticamente subalterna all’ultimo governo Prodi tra il 2006 e il 2008, ai successivi frettolosi e inefficaci cartelli elettorali privi di chiarezza e di prospettiva. Presumere che il lavoro finalmente nuovo e adeguato di riorganizzazione del protagonismo popolare in città come Roma e Milano in queste ultime elezioni amministrative desse già risultati percentuali di consenso superiori al quattro o cinque per cento, essendo appena all’inizio, sarebbe stato certamente un errore, e pertanto quei risultati non sono una delusione ma uno stimolo.

Stimolo a fare che cosa? Nell’immediato, non può trattarsi che di consolidare la sconfitta delle forze di regime di cui il Movimento Cinque Stelle costituisce per ora lo strumento voluto (per così dire) dalla storia (ossia anche e innanzitutto dalle nostre insufficienze). Non saremo, per ora, e forse ancora per un tempo non breve, i protagonisti della competizione per l’investitura popolare. Ma possiamo influenzare l’ambiente in senso favorevole allo sviluppo della democrazia e delle lotte, e questo compito passa per l’ulteriore umiliazione, il 19 giugno, della tracotanza del potere che vuole farsi regime (in preparazione del colpo finale da assestargli in ottobre). La storia è stata generosa offrendo, come sostituto del ruolo cui siamo mancati, un fenomeno complesso e ambiguo e tuttavia non estraneo alla democrazia, anzi globalmente assai meno pericoloso per essa se messo a confronto con il disegno di regime rappresentato ora immediatamente dal finto duello Sala-Parisi a Milano e dal già cessato finto duello Giachetti-Marchini a Roma.

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

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