La salvezza e la ricostruzione

La lunga decadenza della Repubblica e della politica democratica si è fermata a un passo dal baratro finale. Ora tutto è possibile. Anche risalire.

Nel lontano 1952, prendendo la parola davanti ai delegati del XIX Congresso del PCUS, un apparentemente imprevedibile Giuseppe Stalin esortò i comunisti dell’Occidente a “raccogliere la bandiera delle libertà borghesi” che la borghesia, disse, aveva “gettato a mare” (per la grande soddisfazione di Togliatti e per l’accigliato e silenzioso sgomento, si può ben immaginare, di Maurice Thorez). Allora, naturalmente, si parlava di cose serie e complesse. Quasi settant’anni dopo, invece, una fedeltà tanto inconsapevole quanto eccessiva e sgangherata a una tale consegna si può riconoscere (con il massimo della benevolenza possibile) come un modo di comprendere la mutazione genetica di una parte significativa del patrimonio organizzativo e culturale edificato nel Novecento dai comunisti italiani.

Tale mutazione, come è noto, arrivò a compimento circa un decennio fa sotto l’insegna e la denominazione alquanto goffamente imitativa di “Partito democratico” (“quanta esagerazione in due sole parole!”, Fabio Mussi disse efficacemente una volta). Cominciando con gli effettivi e immediati sviluppi della svolta della Bolognina (qualunque cosa originariamente questa volesse significare), passando per i rimescolamenti politico-culturali di Gargonza, le bombe sulla Serbia, e poi l’autodefé del Lingotto, i poco adeguati epigoni di una generazione di giganti (dei quali il solo vero sopravvissuto, ossia Giorgio Napolitano, era mutato geneticamente per primo a sua volta già da lungo tempo per svolgere quindi un ruolo di alto patronato dell’operazione) dotarono infine l’Italia del grande partito liberale che Sidney Sonnino aveva vanamente sognato ben più di un secolo addietro. Ossia, fecero la cosa interessante ma discutibile nel tempo comunque e decisamente sbagliato (poiché più che superato). E correlativamente privavano l’Italia di quelle forme di autonoma organizzazione politica delle classi lavoratrici che ovunque costituirono la peculiarità e la novità della grande stagione della democrazia vissuta nella maturità del Novecento. Si deve dire comunque che l’operazione non sarebbe riuscita senza il concorso di diffusi riflessi di autoconservazione identitaria (del genere di quelli che Vilfredo Pareto intuiva e studiava mediante la formula della “persistenza degli aggregati”), della chirurgia istituzionale professata e praticata da politologi di immeritato prestigio, e dell’affannosa improvvisazione (tanto politica quanto culturale) che ha caratterizzato lungamente i tentativi anche a volte generosi di opporre qualcosa a tutto questo.

Lo straordinario e complesso sussulto popolare del 4 dicembre 2016 ha messo la parola fine a questa vicenda, o più precisamente all’orgogliosa sicurezza con cui gli autori di tanta impresa asserivano e forse credevano di avere niente di meno che la storia dalla propria parte. Ben inteso, è un paesaggio di rovine – ormai – che si è pur così impetuosamente mosso. Il massiccio rifiuto dell’egemonia politica e culturale del neoliberalismo (“progressista” o “moderato”, secondo le arbitrarie auto-denominazioni dei protagonisti) proviene da un popolo largamente ridotto a folla solitaria, molte delle cui inquietudini e delle cui esigenze trovano oggi, quotidianamente, rappresentanza impropria, ambigua, perfino inquietante. Tra i capi improvvisati di queste forme di rappresentanza politica non si trovano naturalmente figure del livello (tragico certamente) di uno Stalin, né tantomeno di un Togliatti. Eppure, una parte significativa di questo personale politico, spesso addirittura proveniente da ambienti permeati da nostalgie fascistiche. può forse e più o meno consapevolmente invocare di avere preso in mano la bandiera dei diritti sociali che la “sinistra” (come il neoliberalismo progressista usa talvolta denominare sé stesso) ha gettato a mare.

Ma quella è la nostra bandiera, ed è assolutamente necessario che ritorni ad essere alta e riconoscibile nelle nostre mani. Nostre, cioè di chi crede che la libertà è tutt’uno con l’eguaglianza (e non semplicemente da correggere con un po’ di eguaglianza), ed è tutt’uno con la solidarietà (con il genere umano e non, comunque, solo con i propri compaesani di un paese più o meno esteso). Ma non la riprenderemo mai se non assumeremo l’atteggiamento di chi sia fiero dell’appellativo di demagogo dato dagli avversari. Non dimentichiamo che proprio questo fu il nobile destino di un Roosevelt.

Per ricostruire dovremo essere in tanti. Tutti e ciascuno di coloro che hanno detto no credendo in quelle cose. Da dovunque venga e perfino qualunque cosa abbia fatto. Purché vada con noi nella direzione giusta.

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

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