Sleali a questa Europa

Dovremmo essere preparati a reggere accuse di antieuropeismo così come i critici del programma di Gotha nella Germania bismarckiana reggevano le accuse di antinazionalità.

 

Appare spesso fin troppo ovvio che il sistema internazionale contemporaneo è caratterizzato da una marcata trasversalità dei processi economici e sociali da governare, e dal correlativo trasferimento di poteri dalle sedi sperimentate della sovranità (più o meno democraticamente investita e orientata) a sedi dotate di potere normativo aventi raggio più o meno estesamente maggiore ed efficacia più o meno intensa. Tra queste sedi, le istituzioni dell’Unione Europea formano oggi quella che presenta il massimo grado di concentrazione e di efficacia entro uno spazio territoriale tanto ampio quanto ben definito.

Sostanzialmente, comunque, le effettive funzioni di vero e proprio governo che sono svolte dalle istituzioni dell’Unione Europea non sono qualitativamente diverse, né diversamente finalizzate, rispetto a quelle che sono svolte per un raggio più esteso, e in modo meno diretto e meno formale, da altre istituzioni. La presenza e le attività della cosiddetta“trojka”, formata da Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, e Commissione Europea, sono la più evidente manifestazione di questo stato di cose.

Discutere quanto e se le istituzioni dell’Unione Europea siano riformabili (e comunque se lo siano con una velocità almeno corrispondente a quella del peggioramento costante della crisi sociale e civile che esse contribuiscono attualmente a generare) comporta innanzitutto chiarire quanto quella stretta connessione si presti ad essere disaccoppiata. In altre parole, tutto dipende da come si risponde alla domanda se un apparato progettato e regolato per uno scopo possa essere preso in mano per essere diretto, senza strappi o contraccolpi paradossali, a svolgere operazioni completamente diverse.

Ci sono ragioni per desiderare molto che il disaccoppiamento sia possibile e che pertanto l’Unione Europea possa essere riformata (anche se non è detto che siano sufficienti per crederlo). Una di queste, frequentemente enunciata, è la constatazione che soltanto uno spazio come quello dell’Unione Europea abbia oggi la taglia giusta per essere sede di processi politici e di decisioni politiche (in futuro, si spera, democratiche) che abbiano qualche probabilità di controllare e di modificare effettivamente i processi in atto su scala globale. Una seconda (che può apparire un po’ meno forte a causa della sua grande somiglianza con una petizione di principio) è che rivendicazioni di autonomia entro spazi più ridotti e delimitati si alimentino necessariamente di orientamenti culturali esclusivisti, dogmatici e autoritari (normalmente definiti di “destra”), o addirittura ne generino e ne diffondano.

La rivendicazione di queste ragioni fa tutt’uno con la convinzione che non soltanto l’idea della sovranità degli Stati sia superata, ma che meriti di esserlo come reliquia di tempi anche recenti in cui lo sviluppo delle possibilità tecniche di produzione, di scambio e di distribuzione di ricchezza (specialmente attraverso l’accessibilità diffusa e istantanea di una massa stupefacente di informazioni e in generale di risorse cognitive e di opzioni operative), era incomparabilmente più limitata. I vantaggi dell’espansione di queste opportunità e di queste risorse sono spesso considerati tali da compensare ampiamente il costo rappresentato dalla rinuncia ai consueti strumenti della democrazia e la fatica di cercarne di nuovi.

Tuttavia la forza argomentativa di questa lettura dei fatti è condizionata e limitata da almeno due altre osservazioni. Innanzitutto l’accesso a risorse cognitive e tecnologiche sufficienti per esercitare scelte libere, motivate ed efficaci, è tutt’altro che diffuso, ed è perfino dubbio che le competenze necessarie a questo fine si possano mai trovare completamente riunite in un solo soggetto collettivo (e tanto meno individuale) capace di fare tale genere di scelte, ossia per effettuare le operazioni essenziali e caratteristiche di ogni democrazia. Il sistema sociale complessivo sembra cioè essere stato quasi affidato a una guida automatica, fino al punto di rendere i ceti dirigenti quanto mai simili all’immagine marxiana di puri e semplici “funzionari del capitale” (forse nemmeno troppo felici). Questo moltiplica la difficoltà di affrontare e correggere (per usare un termine caro all’ideologia “riformista”) gli effetti tragicamente paradossali dei processi in corso, ossia la gigantesca divaricazione tra lo sviluppo delle potenzialità tecniche di accrescimento delle occasioni di buona vita sulla terra e la penosissima contrazione delle occasioni effettivamente disponibili per le persone reali.

In secondo luogo, l’idea che una riforma democratica dell’attuale Unione Europea possa corrispondere al giusto e necessario superamento della forma di politica e di Stato riassunta nel concetto di sovranità non appare internamente coerente, specialmente quando si serve di riferimenti al modello rappresentato dalla forma federale dell’organizzazione politica degli Stati Uniti d’America, ossia di una delle potenze sovrane più efficaci, più consapevoli di essere tali, e più decise a restarlo, che ci siano oggi. Ipotizzare un governo centrale investito da procedure elettorali più o meno aperte a rappresentare ogni ragionevole opzione (possibilmente in misura maggiore di quanto accade nel modello nordamericano, e comunque maggiore di quanto tende ad accadere oggi in modo diffuso), entro uno spazio determinato da limiti formali (ossia frontiere), significa semplicemente dare vita a un nuovo Stato sovrano. I critici del “sovranismo” non hanno ancora spiegato come la loro critica possa stare insieme con questa conseguenza di ciò che generalmente (per ora) arrivano a suggerire in alternativa.

L’idea di un governo federale europeo come strada per colmare l’attuale e pesante deficit di democrazia entro lo spazio dell’Unione Europea resta oggi sorprendentemente vaga quanto alle sue necessarie implicazioni geopolitiche, a loro volta connesse con implicazioni storico-culturali non ancora abbastanza chiarite. Da questo punto di vista, l’uso del termine “Europa” come significante abbreviato e mitico del corpo politico da costituire e consolidare in quella forma, e come oggetto della lealtà particolare ed esclusiva da presumere (o da richiedere) per i suoi membri, può apparire come un’operazione molto ardita nei confronti di un complesso e delicato insieme di sedimenti e di memorie collettive, non meno colte che popolari.

Il caso della Germania tra Ottocento e Novecento, e quello di Israele oggi, rappresentano esempi di inconciliabile tensione tra fondamento culturale e fondamento politico-territoriale di un’identità collettiva, che un tale uso dell’idea di Europa può apparire destinato a riprodurre. D’altra parte, il processo di formazione degli attuali “confini” dell’Unione Europea si è sviluppato in strettissima connessione con le dinamiche geopolitiche e di politica di potenza degli ultimi due decenni, fino al punto di rendere i vincoli di appartenenza all’Unione difficilmente distinguibili o scindibili dai vincoli di appartenenza a un preciso ed esclusivo (nonché più esteso) blocco-politico-militare.

Ciò appare tanto vero che la stessa “trojka”, nel suo effettivo complesso di funzioni e di motivazioni, maschera spesso male la sua reale natura di “quadriga”, composta anche dalla NATO. E le ricorrenti argomentazioni miranti a rafforzare e intensificare le potenzialità offerte o suggerite dalla scala continentale per l’organizzazione di una forza militare autosufficiente, anche in vista di possibili e forse probabili nuove scelte isolazioniste da parte degli Stati Uniti, non rassicurano certamente quanto alle conseguenze di quelle origini geopolitiche della nuova ed esclusiva identità europea che l’idea di un governo federale (più o meno consapevolmente) presuppone.

Se allora si assume un punto di vista e un insieme di finalità fondati sulla cultura e le idee del movimento operaio e democratico, appare necessario adottare una posizione di decisa slealtà nei confronti delle istituzioni e delle norme dell’Unione Europea, riservando agli atteggiamenti leali grossomodo lo stesso genere di critica che Marx rivolse a suo tempo al programma di Gotha della socialdemocrazia tedesca, e al di là di ciò sulla base di dilemmi e rischi analoghi. E una tale slealtà dovrebbe essere non meno in grado di confutare e respingere accuse di nazionalismo e di sovranismo di quanto i marxisti coerenti (e antilassalliani) avessero ragione di confutare e respingere l’accusa bismarckiana di essere antinazionali o addirittura nemici della “cultura”.

Abbiamo allora bisogno di afferrare quanta più democrazia sia possibile ora a qualunque raggio di efficacia, e prima di ciò (innanzitutto) di salvaguardare quanto ne resta in qualunque ambito, non meno “nazionale” che comunale o regionale. E, a qualunque livello, un potere democratico e partecipativo può e deve rivendicare un diritto di disobbedienza (ossia di primato, fondato su una maggiore legittimità) rispetto ad ogni regola che abbia origini e fondamenti diversi dalla democrazia.

Naturalmente ciò implica che si tratti di poteri democratici non soltanto per le loro origini formali, ma per i valori e le finalità cui si ispirano (cosa che assume anche una rilevanza giuridica formale nel caso di Costituzioni “nazionali” come quella italiana). A disubbidienze come quelle rappresentate dal muro dell’infamia costruito dall’Ungheria di Orbán non si può che ulteriormente disubbidire in ogni modo e a qualunque livello (perfino nel caso molto improbabile che Bruxelles voglia veramente opporvisi). Ma a continue e costanti violazioni di regole e prescrizioni come quelle della Costituzione italiana, vittoriosamente difesa il 4 dicembre scorso, non si può che disobbedire. Un popolo che non sappia affrontare le durezze di una tale disobbedienza (che riguardi anche, se necessario, l’adozione di misure unilaterali rispetto a regole monetarie e finanziarie disumane e sciagurate) può anche convivere sopravvivendo alla sottrazione della democrazia, giacché mostrerebbe di non meritarla.

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

1 reply

  1. D’accordissimo

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