Stati e rivoluzione cento anni dopo

Il legame del capitalismo con lo Stato territoriale è molto più stretto che con forme di mercato dette più o meno globali. Forse dovremmo essere più guardinghi circa la possibilità di profittare democraticamente di quanto è in corso di costruzione da parte di quella moderna forma di assolutismo che è il potere delle istituzioni europee.

Volendo ragionare sul centenario della rivoluzione sovietica in modo veramente utile oggi, al di là di nostalgie e deprecazioni, conviene soffermare specialmente l’attenzione su uno degli elementi essenziali di tutta una fase della storia della libertà come storia dell’emancipazione dell’operosità umana dai vincoli della servitù, dello sfruttamento e dell’avidità: quella che appunto si aprì cento anni fa e si chiuse verso la fine del Novecento. Si tratta del complesso e comunque stretto rapporto che il movimento operaio e democratico visse allora con una grande potenza mondiale tra le potenze mondiali, la quale si presentava e si dichiarava come uno strumento della rivoluzione.

Volutamente o no, direttamente o no, accadeva allora, perciò, che tutto l’insieme del movimento operaio e democratico mondiale, più o meno dappertutto, si trovava implicato nella sfera della politica di potenza, essendo obbligato a prendervi posizione in questo o quel senso. “Stato e rivoluzione” erano termini di un complesso rapporto, necessario ed effettivamente permanente (ben oltre le ipotesi e le intenzioni di Lenin, ma coerentemente con la sua prassi). Comunque, lo stesso si poteva dire di “Stato” e “riforme” così come in generale (e non solo allora, del resto) di “Stato” e “politica”.

La stretta intimità di una parte significativa del movimento operaio e democratico con il potere e la potenza di uno Stato (destinata a produrre effetti indiretti su tutto l’insieme del movimento) si stabilì in modo repentino e imprevisto durante la carneficina universale costituita dalla prima guerra mondiale, allorché la rapida sparizione di ogni minima forma di autorità riconosciuta come legittima entro l’immenso spazio di uno dei maggiori Stati belligeranti diede a un partito rivoluzionario l’occasione di prendere il potere e insieme la sfida ad esercitare un compito improprio come ripercorrere quasi da zero un processo di fondazione dello Stato: con tutte le terribili asprezze che avevano spesso caratterizzato tali processi, e naturalmente lo fecero anche in quel caso. Il carattere improprio di un tale ruolo, che le circostanze imposero di assumere, si manifestò nel tragico corto circuito tra fede e potere che caratterizzò quella forma di Stato e di civiltà (in modo più o meno forte) per i tre quarti di secolo della sua durata, secondo lo schema tipico di un “potere temporale”.

Quali sono comunque le conseguenze della sparizione di questo dato nell’epoca presente? Innanzitutto, per il bene come forse anche per il male, è chiaro ed è indiscutibile che nel nostro tempo nessuna politica rispondente alle ragioni del socialismo può più riferirsi in alcun modo a posizioni di potere direttamente spendibili entro il sistema internazionale, come sembrò contraddittoriamente possibile dopo il 1917, e in parte e in qualche modo lo fu anche, con risultati talvolta decisivi. Meno chiari, e più discutibili, sono invece i dubbi che riguardano oggi la possibilità di assumere comunque lo Stato come spazio primario di ogni operazione politica.

Ovviamente appare ben difficile riconoscere il modo di agire sui processi in atto nella civiltà in cui viviamo, ed è da trasformare, senza chiarire tali dubbi. Questi si basano quasi sempre sulla rilevazione della marcata trasversalità dei processi economici e sociali nel nostro tempo, da una parte, mentre dall’altra si osserva (non sempre in modo del tutto coerente con la precedente constatazione) che la taglia minima delle aggregazioni entro cui poteri sovrani possano essere esercitati con qualche reale efficacia è diventata enormemente più grande che in passato dopo l’avvento della cosiddetta globalizzazione. L’insediamento di un presidente enfaticamente nazionalista negli Stati Uniti all’inizio di questo 2017, e la molto probabile ascesa al potere di correnti non meno accesamente nazionaliste in almeno uno dei maggiori Stati membri dell’Unione Europea, sfidano fortemente questo senso comune in un modo tutt’altro che benvenuto ma non per questo meno comprensibile.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, lo sviluppo appare coerente, dal momento che la cosiddetta globalizzazione si formò e si sviluppò nell’ultima parte del secolo scorso come prodotto (e, in quanto ideologia, come mascheramento) di precise mosse strategiche volte ad affermare l’interesse nazionale degli Stati Uniti (come definito dalle sue classi dominanti) nel contesto geoeconomico e geopolitico mondiale. Appare perciò naturale che tanto l’ideologia quanto la prassi effettiva tendano ad essere ribaltate adesso che gli sviluppi reali di quella costruzione si manifestano gravemente e strutturalmente lesivi dell’interesse nazionale degli Stati Uniti così concepito e individuato, e anche della pace sociale e della conseguente stabilità del dominio delle sue classi dominanti o almeno di una parte significativa di queste.

I precedenti storici del fenomeno Trump possono essere in effetti ricercati da una parte nella crescente influenza delle correnti protezioniste proprio in Inghilterra al principio del Novecento (cioè all’epoca della crisi della Prima Globalizzazione), e dall’altra (in una misura sperabilmente limitata) nella scommessa che i ceti dirigenti tedeschi e transnazionali fecero inizialmente sul movimento nazionalsocialista vedendo in questo un modo di convogliare l’inquietudine sociale verso uno sbocco che fosse tutto sommato sostenibile per il sistema. Oggi la Cina (e, per il momento, non la Federazione Russa) sembra collocarsi entro tale schema in una posizione oggettivamente analoga a quella dell’Impero tedesco all’inizio del secolo scorso, anche se le contraddizioni interimperialiste sembrano presentare oggi lo stesso grado di fluidità di allora (quando il ceto dirigente dell’Impero britannico esitava a riconoscere il principale avversario nel tradizionale competitore russo o nel partner sempre più fortunato, sempre più indipendente, e sempre più assertivo, già rappresentato lungamente dalla Germania). Una differenza per ora rassicurante è che la dirigenza cinese sembra attualmente sfuggire al confronto spostando piuttosto la discussione sulla sollecitazione e l’auspicio di forme più eque ed universali di cooperazione internazionale. Sebbene accompagnato da un’ancora insufficiente revisione dell’ideologia e della prassi evoluzioniste, e spregiudicatamente sbilanciate a favore della ricchezza privata su scala globale non meno che interna, che fanno da fondamento al modello cinese di sviluppo, questo odierno orientamento della Cina sembra quasi riscattare oggi le occasioni perdute dal governo semi-liberale di von Bülow nel primo decennio del Novecento, e lasciano quindi aperta la speranza che la crisi finale della Seconda Globalizzazione abbia un andamento meno tragico per il genere umano.

Operare per il socialismo e per la pace nel nostro paese e in paesi vicini e simili al nostro comporta scelte complesse quanto alla direzione da prendere. La nostra collocazione è prossima a veri e propri fronti di guerra aperti ormai da lunghi anni nella sorda e caotica rete delle manovre imperialistiche che hanno accompagnato e sostenuto il movimento superficiale della seconda globalizzazione. Da una parte, cioè, le devastanti campagne di destabilizzazione e ricomposizione dell’equilibrio del Medio Oriente a favore degli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione (con l’alterna partecipazione di alcune medie potenze europee); dall’altra, la crescente pressione geopolitica esercitata dagli Stati Uniti sui margini della Federazione Russa al fine di contenere la sua influenza e la sua capacità di interloquire autonomamente.

Per quanto riguarda il primo scenario, sull’altra sponda del Mediterraneo, i paesi europei sono drammaticamente esposti all’onda d’urto più diretta di quella interminabile e contorta guerra, lontana e vicina al tempo stesso: vale a dire, vere e proprie migrazioni di popoli le cui dimensioni erano ormai sconosciute da secoli. La perdita di stabilità e di sicurezza provocata da questo fenomeno su scala di massa apre gravi conflitti nel seno dei ceti popolari. Questi, già colpiti da un duro conflitto di classe vittoriosamente condotto dai ceti che dispongono della proprietà e del controllo delle risorse produttive, non esitano spesso ad affidare le loro esigenze più immediate, e spesso drammatiche, a quanti promettono di liberarli innanzitutto e comunque da ciò che l’impreparazione e la cattiva fede dei ceti dominanti lascia manifestare semplicemente come un colpo ulteriore, facile da percepire come il più diretto e immediato. Nei singoli Stati membri dell’Unione (e anche per quanto riguarda l’Unione stessa) due politiche di destra si contendono dunque il successo in relazione con questa emergenza. La destra tradizionale accentua la divaricazione tra libero movimento (e fuga) dei capitali ed effettivo controllo sicuritario dell’ondata migratoria sotto la copertura di innocue enunciazioni liberali a tale riguardo. La nuova destra “popolare”, da parte sua, unisce invece un’esplicita e indiscriminata intolleranza verso l’afflusso dei disperati con denunce non meno innocue dei danni inflitti dalla globalizzazione e dalle regole europee alle sicurezze economiche del ceto medio e anche di strati popolari ben più estesi. A questi essa offre la parola d’ordine della restaurazione delle prerogative di sovranità nazionale oggi ampiamente delegate agli organi dell’Unione Europea: e ciò ovviamente la rende più pericolosamente chiara e credibile.

Per quanto riguarda il secondo scenario, la fase più acuta, innescata dal colpo di Stato fascista e dichiaratamente “filo-europeo” contro la fazione filorussa della cleptocrazia al potere in Ucraina, appare attualmente superata ma resta comunque dormiente. Il momentaneo orientamento distensivo su questo fronte da parte della nuova amministrazione statunitense suscita inoltre irrequietezze e timori negli ambienti europei interessati a una forte ed esclusiva protezione dei loro interessi da parte della politica estera e militare dei propri paesi (come è caoticamente e ferocemente accaduto in Libia nel 2011), e che oggi cominciano a reclamare il pieno trasferimento di questa protezione a livello “europeo”, anche in vista di un temuto ridimensionamento del ruolo della NATO da parte degli Stati Uniti.

Nella disputa tra “europeisti” e “sovranisti”, che sembra occupare in modo crescente e non proprio utile lo spazio della discussione in seno alle forze che si definiscono di sinistra con un minimo di fondamento, sorprende specialmente la scarsa rilevanza spesso data (da entrambe le parti) alle conseguenze geopolitiche globali delle rispettive proposte. I secondi, nelle loro denunce sulla sovranità nazionale tradita, trascurano ampiamente che, sul piano della politica estera e militare, la sovranità dello Stato nazionale in cui operano appare spesso ben poco scalfita o messa in discussione, a cominciare proprio dalla Francia del Front National (ma anche di Hollande e di Sarkozy prima di lui). I secondi trascurano lo sviluppo logico finora non discusso né contrasto del punto centrale della loro argomentazione (che consiste, ricordiamo, nella necessità di compensare le perdite di democrazia finora subite nei singoli paesi recuperandole direttamente su scala europea, dove essa sarebbe più forte rispetto ai processi da governare): vale a dire, la nascita di un nuovo Stato sovrano dotato di frontiere da assicurare e da garantire, nonché di propri interessi da promuovere nello scenario globale.

Mettendo per un momento tra parentesi la questione dei tempi sostenibili per il recupero della democrazia e delle possibilità di resistenza e di disobbedienza attiva che tutte le comunità locali (anche, ma non soltanto nazionali) possono frattanto offrire, occorre quindi lavorare di più intorno alla contraddizione tra la critica (finora sviluppata) dell’idea di sovranità e la mancata definizione delle caratteristiche di una Unione Europea che fosse riformata in modo tale da somigliare piuttosto a uno Stato federale che a una federazione di Stati. Quanti ritengono probabile (oltreché possibile) che una tale evoluzione favorirebbe la democratizzazione delle scelte fondamentali da effettuare entro lo spazio dell’attuale UE dovrebbero chiarire meglio come ciò inciderebbe sull’evoluzione delle dinamiche del sistema internazionale globale in senso più favorevole alla pace e alla cooperazione tra i popoli.

Se dunque la critica del concetto di sovranità deve essere coerente e generale, ciò che occorre scongiurare è la più o meno consapevole riproduzione su scala allargata del modello dello Stato sovrano, territorialmente definito in modo esclusivo. L’Europa è un’idea storicamente incerta, dai confini storicamente incerti, così come lo fu, per secoli, l’idea di Germania; e si dovrebbe veramente cercare di fare in modo che non siano gli eventi a risolvere infine il problema come accadde tragicamente per la Germania nel secolo scorso. La definizione in termini territoriali di un’identità culturale complessa costituisce sempre un problema potenzialmente distruttivo (è per esempio oggi il caso di Israele, come Tony Judt mise in evidenza in modo impeccabile). La storia offre casi di soluzione molto più interessante e costruttiva, come quello che funzionò abbastanza bene nel caso della Germania nel corso dell’età moderna (ma anche per quanto riguarda alcune forme dello Stato ottomano che furono molto ammirate da Otto Bauer) in termini di funzioni e lealtà sovrapponibili anche a livello territoriale.

In effetti, la connessione tra capitalismo e Stato territoriale (spesso tendente a definirsi “nazionale” anche quanto non in senso etnico) è molto più stretta della sua connessione con forme più o meno ampiamente e universalmente trasversali (o “globali”) di mercato, come Lenin intuiva politicamente e cercava di tradurre teoricamente, e come Fernand Braudel descrisse poi magistralmente. La borghesia capitalistica ne favorì e ne finanziò largamente la formazione in quanto potere assoluto; e la “democratizzazione” del modello da parte dei giacobini francesi e dei loro successivi e numerosi imitatori ebbe adesioni generose, notevoli conseguenze positive, ed effetti generali molto spesso paradossali e complessivamente molto pesanti e spesso tragici, sulla vita delle persone. Forse dovremmo cominciare ad essere meno immediatamente ottimisti, e riflettere di più, quanto alla possibilità di profittare democraticamente di quanto è in corso di costruzione da parte di quella moderna forma di assolutismo che è il potere delle istituzioni europee.

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: