La rivoluzione necessaria in Italia oggi ha qualche analogia con quella che ebbe luogo in Giappone alla fine degli anni sessanta del diciannovesimo secolo, e fu detta “restaurazione” (illuminata) di un giusto ordine. Abbiamo salvato la Costituzione scritta. Adesso è tempo di fare i conti con i nostri Tokugawa.
La vittoria del No nel referendum del 4 dicembre 2016 sembra veramente molto lontana. A qualcuno (forse non a pochi) può sembrare forse praticamente vana. Non soltanto, infatti, gli sconfitti sono ancora al potere, ma si mostrano beffardamente in grado di comportarsi come se niente fosse accaduto.
L’importanza (potenziale) di ciò che è accaduto quel giorno non sta infatti semplicemente nella conferma del consenso popolare alla Costituzione in senso formale. Tanto meno in quanto già la forma stessa era stata (e resta) parzialmente adattata al regime sostanziale effettivamente vigente mediante la revisione dell’Articolo 81, ossia mediante l’inaudita costituzionalizzazione di una particolare e incerta ideologia o dottrina economica (per altro molto cara al potere globale).
Meglio, certamente così: guai altrimenti. Ma il fatto importante accaduto il 4 dicembre 2016 è stato anche (soprattutto, forse) il ritorno massiccio del popolo alle urne: specialmente, poi, del popolo giovane. Si è trattato infatti di un sano sussulto di reazione al sostanziale svuotamento del suffragio universale perseguito e attuato mediante la manipolazione delle regole circa il suo esercizio, ossia mediante la sostanziale predeterminazione di un limitato campo di risultati elettorali possibili e ammissibili. E una tale manipolazione appare destinata a proseguire, aggirando ancora le pur timide e parzialmente indebolite difese opposte dalla Corte costituzionale.
Soltanto per una via l’energia positiva manifestata e sprigionata dal voto popolare del 4 dicembre 2016 poteva continuare a produrre effetti: cioè, mediante una prosecuzione costante e in qualche modo organizzata (anche e soprattutto auto-organizzata) della mobilitazione democratica che aveva reso possibile quel risultato. Si trattava cioè di assicurarsi, e di assicurare, che l’inganno sistematico ed efficace del “voto utile”, cui tanta parte del paese aveva reagito da tempo prendendo atto dell’intervenuta inutilità del voto, e agendo conseguentemente, potesse essere sfidato dalla presenza di una grande forza unita, raccolta intorno alle ragioni semplici e profonde (e più o meno consapevoli) del cosiddetto “No sociale”: il diritto di ciascuno al lavoro e il dovere per ciascuno di lavorare; la sapiente subordinazione del denaro al servizio dell’economia e non la disumana subordinazione di questa a quello; la critica vera e costruttiva dell’idea di sovranità statale finalmente estesa anche a quello Stato camuffato e svuotato di democrazia nel quale i vigenti trattati soffocano e avviliscono ogni sensata idea di Europa, e la ridefinizione di entrambe queste difficili idee entro quella di una rete di cooperanti, pacifiche e aperte quanto democraticamente efficaci organizzazioni territoriali della vita e del lavoro delle persone.
Fatte salve le intenzioni e le motivazioni, l’offerta di personale politico e di organizzazione politica teoricamente più vicina alle cittadine e ai cittadini che hanno indicato come attuali queste esigenze il 4 dicembre 2016 è restata al di qua di una tale unificante chiarezza. Ha invece continuato a frazionarsi in distinti e circoscritti conati organizzativi, identificati specialmente secondo diverse posizioni assunte in dispute tattiche le quali spesso (più o meno direttamente) rielaborano passati sforzi di mai felice adattamento alle manipolazioni del sistema politico e istituzionale in questo venticinquennio post-democratico (o, comunque, al linguaggio e alla logica della sua prassi).
Ciò che probabilmente manca, se vogliamo definirlo nei termini dell’attuale neolingua dei media, è il coraggio di scegliere una posizione sovranamente antisistema (la parola “populismo” può veramente essere lasciata a chi la fa propria con adesione). La rivoluzione necessaria in Italia oggi ha qualche analogia con quella che ebbe luogo in Giappone alla fine degli anni sessanta del diciannovesimo secolo, e fu detta “restaurazione” (illuminata) di un giusto ordine. Abbiamo salvato la Costituzione scritta. Adesso è tempo di fare i conti con i nostri Tokugawa.
Raffaele D’Agata
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