Se insieme ragioniamo sul successo di Corbyn che seppellisce il blairismo ed ogni thatcherismo dal volto più o meno umano, aprendo un orizzonte di necessaria e rinnovata de-privatizzazione di aspetti fondamentali dell’economia; se insieme guardiamo con fermo coraggio alle terribili e oscene trappole che le sarabande finanziarie degli ultimi decenni hanno collocato specialmente lungo la via del nostro paese; e se insieme sappiamo quindi ridare al termine “austerità” i veri e nobili contenuti che gli sproloqui correnti capovolgono; insieme possiamo fare veramente molto.
Innanzitutto, e prima di altre considerazioni, si deve dare atto a Massimo D’Alema di avere riconosciuto e formulato correttamente uno dei problemi chiave della democrazia italiana oggi, cioè l’assenza di un grande strumento organizzato capace di rappresentare gli interessi e i valori (fondamentali e impliciti) di chi vive o vorrebbe avere la possibilità di vivere del proprio lavoro. Il riconoscimento dell’altro fondamentale problema, costituito dalla manipolazione delle regole della rappresentatività democratica secondo le fumose eppure ben interpretabili teorie della governabilità, lo aveva già portato a sfidare lo stesso partito cui apparteneva (e che ha ormai abbandonato), schierandosi energicamente per il “no” nel referendum del 4 dicembre 2016.
Naturalmente tutto questo ha un’altra faccia, o per dire meglio ha una faccia opposta. Lo stesso D’Alema è infatti tra i principali artefici della liquidazione dello strumento che esisteva ed era tra le più importanti e prestigiose manifestazioni storiche di quegli interessi e di quei valori nel mondo, cioè il Pci. Anzi, è proprio lui che concepì e guidò (nel passaggio dal PDS ai DS) la seconda tappa nella catena di metamorfosi successive che doveva sfociare (non senza coerenza interna) nel partito del Lingotto e infine in quello della Leopolda. Ed è stato tra i tessitori (attraverso la cosiddetta Bicamerale) del lungo lavorìo mirante a riscrivere la Costituzione secondo quelle famose teorie, nonché artefice e promotore di una significativa modifica (la riscrittura del Titolo V) che a molti può fondatamente apparire affrettata e poco benefica, oltre costituire un brutto precedente per tentativi di revisioni larghe e tali da aggirare il carattere rigido della Carta.
Senza menzionare altre importanti vicende passate, su cui peraltro bisognerà tornare, la prima delle due facce è comunque quella che deve oggi interessarci di più. Quando, il sabato che viene, andremo al Teatro Brancaccio di Roma per prendere i nostri impegni entro il cantiere di una forza politica nuova che risolva finalmente il primo problema di cui sopra, e lo faccia muovendo innanzitutto dall’unità reale che vive diffusamente tra le persone, vedere là Massimo D’Alema sarebbe di grandissimo conforto. E ancora più saremmo confortati se da quel teatro alcuni ricevessero un mandato per andare a parlare all’incontro che D’Alema e altri preparano per il 1° luglio, aggregando innanzitutto personalità e gruppi presenti in Parlamento e non privi di seguito in quella parte della società italiana che il blocco di forze da costruire, o ricostruire, non potrebbe ignorare.
Ciò che sta accadendo in Europa adesso può essere un’occasione e uno stimolo per dissipare ogni equivoco circa le regole stravolte della rappresentatività democratica e l’esigenza di ristabilirle. In Francia, la manipolazione presidenzialistica e maggioritaria, combinate insieme, portano un presidente-monarca voluto da una minoranza di elettori reali a dotarsi di un Parlamento ossequiente dove una straripante maggioranza assoluta è stata investita da un semplice 15% di tali elettori (il 30% della loro metà che è andata comunque a votare). In Gran Bretagna, patria del mitico “modello Westminster”, le elezioni dell’8 giugno hanno mostrato definitivamente come le manipolazioni maggioritarie, umiliando la rappresentanza, non assicurano neanche la cosiddetta governabilità, e in questo caso privano la sinistra dei frutti di una splendida vittoria mentre offrono alla minoranza conservatrice la possibilità di imporre al paese un governo formato insieme con forze dalla cupa origine e dalle idee inquietanti. Nello stesso tempo, il voto inglese ha mostrato proprio nella patria del blairismo come la sinistra possa rinascere e vincere solo facendo la sinistra, e non confondendosi con il cosiddetto centro.
Ci sono dunque tutte le condizioni per prendere largamente atto che la troppo lunga vicenda della cosiddetta “seconda” Repubblica richiede ormai di essere archiviata, prima ancora che la riconquista del sistema proporzionale possa essere compiuta, cominciando con le categorie politiche associate con quel distorto panorama istituzionale: innanzitutto, quindi, con le larghe, necessitate e distorcenti coalizioni prima del voto, e specificamente con la strana idea di un “centro-sinistra” che esista prima e comunque, e non come possibile risultato di un confronto parlamentare che una sinistra rappresentativa e sicura di sé sappia condurre con altre forze.
La catastrofe francese insegna anche altro. Se il PS di Hamon, la Francia Indomita di Mélenchon, e lo stesso PCF, avessero sempre camminato insieme, l’artificiale riduzione della presenza della sinistra nelle istituzioni non sarebbe riuscita altrettanto bene. Insieme con fattori di personalità, e in particolare di autoreferenzialità, certamente presenti e operanti, le cause della divisione sono da riconoscere proprio in alcuni “paletti” che sono piuttosto idoli o totem, come la questione dell’Europa e quella (abbastanza legata) della NATO e delle sue possibili crisi ed evoluzioni.
Ma veramente, insomma, le accuse reciproche a proposito del cosiddetto e non ben definito “sovranismo”, e le barriere politiche e psicologiche che ne derivano, non possono evaporare alla luce della ragione e del discernimento? Certamente sì, se soltanto si rende coerente la critica della sovranità estendendola alla sovranità mascherata e non democratica già oggi esercitata da Bruxelles e da Francoforte, e così anche a quella che taluni fantasticano di conferire a un super-Stato “europeo” che divida ulteriormente l’Europa storica (inconcepibile senza una Pietroburgo e la sua regione ancora detta leningradese) e sia dotato di strumenti militari accresciuti in un mondo come quello attuale. Certamente sì, se si intende veramente scalfire e rimodellare le forme storiche della sovranità, e mettere da parte le loro cattive restilizzazioni, verso una rete di libere e cooperanti articolazioni anche territoriali (e storiche) del potere democratico: riscrivendo in questo senso le regole dell’integrazione continentale.
Se insieme riconosciamo questo, e se insieme ragioniamo sul successo di Corbyn che seppellisce il blairismo ed ogni thatcherismo dal volto più o meno umano, aprendo un orizzonte di necessaria e rinnovata de-privatizzazione di aspetti fondamentali dell’economia; se insieme guardiamo con fermo coraggio alle terribili e oscene trappole che le sarabande finanziarie degli ultimi decenni hanno collocato specialmente lungo la via del nostro paese; e se insieme sappiamo quindi ridare al termine “austerità” i veri e nobili contenuti che gli sproloqui attuali capovolgono; insieme, allora, possiamo fare veramente molto.
Raffaele D’Agata
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