Il dubbio, la ragione, e l’unità possibile

Il termine “centro-sinistra” (scritto quasi sempre, chissà perché, senza trattino) mostra un forte potere divisivo, e una forte capacità di suscitare passioni contrapposte, inversamente proporzionali alla chiarezza del suo significato. Lo stesso accade per la disputa sul “sovranismo” e per l’idea di “mercato”

Può essere anche vero che, a pensare male, s’indovina. Almeno, spesso. Ma forse non sempre. Una ragionevole apertura a riconoscere reciprocamente ragioni e propositi, fino ad eventuale e deprecabile prova definitivamente contraria, è comunque ciò che serve oggi a tutto quanto si muove  “a sinistra del centro” (come Willy Brandt usava dire) da lungo o da breve tempo, da questa o quella precedente posizione o esperienza.

Conviene perciò ancora lavorare secondo l’ipotesi (forte) che tutti quanti abbiano preso parte o all’assemblea del Brancaccio il 18 giugno, o alla giornata di proposta e di confronto sulle cose da fare promossa dal nuovo PCI il 25 giugno, o infine all’evento romano di Piazza dei Santi Apostoli il primo di luglio,  condividano alcuni scopi importanti. Tra questi possono esserci (e forse realmente ci sono) almeno i due seguenti. Offrire a un elettorato sempre più deluso e diffidente verso la politica una scelta interessante, democratica, che risponda credibilmente ai più elementari, attuali, e ormai lungamente inappagati, bisogni di giustizia. E, conseguentemente, ottenere che nel prossimo Parlamento  questi siano rappresentati, difesi e promossi, da una forza che vi abbia peso e influenza non trascurabili: anzi (come è necessario, e possibile) condizionanti. Dunque, da una forza che sappia raccogliere la famosa percentuale a due cifre. Dunque, da una forza che si sia presentata agli elettori come una sola e credibile lista di sinistra.

Ora, questo è oggi un paese dove la disoccupazione giovanile si avvicina  al quaranta per cento con punte di cinquanta in ampie aree del Mezzogiorno, mentre chi ha la fortuna di avere un lavoro e un reddito (ad ogni età) è sempre più povero di risorse, di diritti, di certezze, e di tempo di vita. Perciò non ci vuole molto affinché il tema del lavoro, delle sue ragioni e dei suoi diritti, sia riconosciuto come centrale, almeno a sinistra del centro. E in effetti, stando a quanto si può ascoltare e leggere entro tale area, e muovendo dall’ipotesi sopra enunciata, così risulta comunque accadere.

Dal momento che questo accade (se, naturalmente, l’ipotesi di cui sopra regge alla prova), una Alleanza democratica del lavoro può offrirsi come una possibilità, e una speranza da affidare alle urne, per tutta questa parte del paese: una parte che, dal punto di vista numerico, tende ad equivalere a quella (ormai tendenzialmente maggioritaria) che non crede più nella politica o almeno nelle elezioni. Naturalmente non sembra  trattarsi, né sempre né spesso, delle medesime persone; ma il dato è comunque significativo.

Una tale forza politica includerà molto probabilmente idee diverse, e anche piuttosto lontane tra loro, circa i modi migliori e più efficaci di promuovere il diritto al lavoro e i diritti nel lavoro. Questo non è scandaloso, e non è nemmeno un impedimento. Ne è prova ricordare come idee e valutazioni diverse (e anche abbastanza lontane) convissero a lungo nel PCI di una volta, e come tuttavia quella forza rappresentò un prezioso ed efficace strumento di riscatto popolare e di incivilimento democratico.

Per misurare la lontananza reciproca di idee che pure si esprimono e si propongono a sinistra del centro in Italia oggi, basta solo pensare ai diversi orientamenti nei confronti delle presenti regole e delle presenti istituzioni dell’Unione Europea, a partire da quelle monetarie; alle diverse visioni quanto ai ruoli rispettivi del “mercato” e della mano pubblica; e al potere divisivo di un termine (e di un apparente concetto) la cui capacità di suscitare passioni contrapposte è inversamente proporzionale alla chiarezza del suo significato: il “centro-sinistra” (scritto quasi sempre senza trattino, il cui uso appare invece linguisticamente e logicamente più corretto).

Cominciando dall’ultimo di questi tre temi, il miglior contributo a definire ciò di cui si può mai sensatamente trattare si deve ad Alberto Asor Rosa. Come questi ha messo in evidenza in un recente articolo sul “Manifesto”, e ulteriormente sottolineato nella tavola rotonda riunita dallo stesso quotidiano e pubblicata sulle sue colonne questo 8 luglio, la sinistra può governare in Italia oggi soltanto in alleanza con il centro:  tutto qui, con poco margine di discussione.  Questo è certamente meglio di ogni presunzione (almeno implicita) di rappresentare tanto il centro quanto la sinistra, onde il termine “centrosinistra” (appunto, senza trattino) passa a individuare un’identità anziché descrivere uno stato di cose.

Ma c’è da fare un passo ulteriore, altrettanto semplice e altrettanto essenziale. Bisogna cioè  sapere e ricordare sempre che prima di fare qualsiasi cosa (e per esempio prima di stringere un’eventuale e anche probabile e necessaria alleanza con il centro, ove le condizioni minime ci siano) la sinistra dovrebbe esserci: ed esserci semplicemente come tale (per quanto articolata e complessa la sua composizione possa mai essere). Purché, naturalmente, i conti siano fatti fino in fondo con l’èra dell’ingegneria elettorale maggioritarista e delle coalizioni preventive che questa comporta ed esige: le quali si sono rivelate da una parte funzionali alla sostanziale egemonia del “pensiero unico” cosiddetto neoliberale, e dall’altra di gran lunga più instabili (poiché artificiali e forzate) di ogni serio compromesso parlamentare negoziato tra forze politiche dotate di reale autonomia e di reale radicamento popolare.

Sulla questione dei ruoli rispettivi del “mercato” e della mano pubblica, appare ragionevolmente possibile fare passi avanti se si cerca di ripetere sempre meno formule acquisite, e piuttosto si osserva sempre di più ciò che è accaduto e sta accadendo. Dopo alcuni decenni di estese nazionalizzazioni (e municipalizzazioni) seguiti da  ormai quasi un quarto di secolo di estese privatizzazioni, sappiamo che né l’una né l’altra formula sono sicura garanzia di buoni risultati, mentre tuttavia la prima ha quasi sempre almeno il pregio di minimizzare l’esclusione e di svolgere spesso importanti funzioni di presidio della qualità del contesto civile. Insistere perciò a fare delle nazionalizzazioni (o de-privatizzazioni)  un vero e proprio tabù, specialmente dopo l’effetto Corbyn e ciò che esso insegna, resta completamente da spiegare (per chi veramente intenda farlo).

Accettare, poi,  di essere definiti in modo  ineluttabile come “europeisti” contrapposti a “sovranisti”, o viceversa, è possibile soltanto se si rinuncia a pensare approfonditamente accodandosi alle semplificazioni dell’apparato mediatico: evitando cioè, per esempio, di domandarsi se veramente l’idea d’Europa sia magicamente e subitaneamente diventata chiara e distinta in questa epoca di precarietà e di dubbi dopo essere stata per molti secoli tra le più incerte e dibattute; o se il termine “sovranismo” sia usato sempre riferendosi a qualcosa di chiaro e la sua critica (di conseguenza) risulti sempre sviluppata in modo  coerente.  A questo fine, in realtà, ogni critica del sovranismo dovrebbe estendersi in modo tale da rendere conto di importanti casi come quelli rappresentati dagli Stati Uniti d’America o dallo Stato d’Isreale (per  fare soltanto due esempi tra i molti possibili, e tra i meno spesso considerati in tale contesto). Dovrebbe poi tenere conto di quanto e quanto forte esercizio di potere sovrano caratterizzi oggi il comportamento e la natura stessa di importanti Stati membri dell’Unione Europea, e di quanto ciò determini originariamente la natura di questa; quindi dovrebbe ammettere che opzioni diverse circa l’uso di tale potere possano e debbano svilupparsi già ora (senza rimandare tutto ai tempi molto lunghi di una revisione dei trattati) mantenendo intanto costante il comunque già alto (e male operante) “tasso di sovranità”.

Soprattutto, poi, la critica del “sovranismo” dovrebbe essere in grado di estendersi a criticare anche l’idea, talvolta evocata, di una Unione Europea che si sviluppi in futuro fino a diventare un super-Stato e una super-potenza: dove appunto il sovranismo non sarebbe criticato o tanto meno superato, ma semplicemente applicato a un nuovo e amplificato fenomeno. Inoltre appare utile sforzarsi di verificare se veramente tali esempi di sovranità e di sovranismo abbiano la stessa natura di ogni possibile e necessaria articolazione anche territoriale, storica, ossia culturale, del potere democratico:  dal libero Comune a quanto di meglio lo Stato moderno abbia infine comunque rappresentato e realizzato nella storia della democrazia e possa e debba essere attualizzato nel contesto presente (fino a forme di più ampia cooperazione e condivisione di  funzioni tra vicini e non solo).

Una disastrosa rinuncia a pensare in modo forte e fecondo sarebbe infine accettare  di definirsi (all’unisono con l’apparato mediatico) “società civile che si organizza dal basso” contrapposta a “politici di professione”, o viceversa. Echeggiare le definizioni dell’apparato mediatico su questo punto sarebbe del resto anche amplificare una distorsione rilevante anche dal punto di vista filologico, dal momento che né Falcone e Montanari né alcuno degli interventi uditi al Brancaccio risultano avere  professato alcun riferimento a quella misteriosa entità che da più parti (e con diverse e perfino opposte intenzioni) si evoca oggi così spesso prendendo a prestito in modo fatuo, da pensieri ben altrimenti forti e complessi, l’espressione “società civile”.

L’ipotesi da avanzare con decisione, e da verificare, è forse semplicemente che nessuna persona sia tanto autocentrata da non essere disposta ad applicare a un caso  di gravissima disaffezione popolare nei confronti delle offerte note della politica,  come quello italiano di oggi, la stessa consuetudine  a compiere “passi di lato” e a favorire l’emersione di figure rappresentative del tutto nuove, che risulta normale (spesso per diverse e discutibili ragioni) proprio in quelle che udiamo spesso essere celebrate (arditamente) come “democrazie mature”. Anche se vi fosse ragione di giudicare eccessivo o immeritato un tale stato d’animo popolare, atteggiamenti responsabili impongono di tenerne conto nella distribuzione dei ruoli di primo piano.

Molto ancora sembra possibile e giusto fare, e dire, e ascoltare, proprio per essere insieme realmente, e non soltanto in un modo nominale e retorico che sarebbe destinato a risultare beffardamente contraddittorio. Tutto, naturalmente, dipende dalla verifica dell’ipotesi da cui tutto questo discorso si è sviluppato.

Raffaele D’Agata



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