Ciò che vogliamo, ciò che non vogliamo, ciò che siamo

Darsi un programma per questa campagna, e per riconoscere concordemente la nuova soggettività condivisa, significa adottare parole d’ordine semplici e forti, totalmente irrispettose dei luoghi comuni ”bipartisan” che hanno dominato e stordito la scena politica negli ultimi anni: insomma, parole d’ordine, e conseguente identità, chiaramente riconoscibili come “antisistema”.

Le “cento piazze” convocate dal 1° ottobre stanno per dare vita al più serio e importante tentativo di auto-organizzazione e di unificazione di quella vasta parte del paese che non si riconosce nelle profonde manipolazioni della nostra democrazia e dei suoi principi fondativi, e nella  condivisa opera di liquidazione degli istituti di gestione pubblica e democratica dei beni e dei bisogni pubblici, che hanno dominato la scena politica italiana negli ultimi tre decenni, con una forte accelerazione proprio durante la grande depressione di questo secondo decennio del ventunesimo secolo. Se c’è una speranza di invertire la tendenza alla smobilitazione popolare, all’abbandono delle urne, e al riflusso nella rassegnazione o nella rabbia impotente o male indirizzata, non può venire che da qui.

Le “cento piazze” si propongono di definire non un una investitura di capi o altri simili riti caratteristici della recente degenerazione della politica, ma un’agenda, un programma. Di che cosa può e dovrebbe trattarsi? Ciò che si vuole, fondamentalmente è chiaro: nel nocciolo,cioè, il contrario di quanto è accaduto e accade, il ripristino dei valori fondanti della nostra democrazia e all’interno di questi l’affermazione e la promozione in forme adeguate ai tempi dei valori di libertà, di solidarietà, e di pace, che vengono dalla grande tradizione  dei partiti popolari e di massa del secolo scorso.

Che cosa vuol dire, allora, definire innanzitutto il programma (anziché ovviamente, e giustamente, la cosiddetta “leadership”)? Significa forse elaborare(in primo liuogo) complessi documenti? Significa forse stabilire adesso la sostanza determinata delle misure da prendere? Anche questo, certamente, si dovrà fare, quando verrà il tempo di agire in Parlamento come forza di lotta capace di governo, ossia dotata sempre di una sua idea di governo e mirante comunque a incidere e ottenere risultati  (non qualsiasi e comunque piccolo risultato, ma risultati significativamente conformi a ciò che si vuole, non essendo dunque già disponibili per qualunque alleanza di governo sia mai offerta o data per possibile). Ma proprio adesso, qui, all’inizio di questa campagna, darsi un programma non significa questo. Piuttosto, darsi un programma per questa campagna, e per riconoscere  concordemente la nuova soggettività condivisa, significa adottare parole d’ordine semplici e forti, totalmente irrispettose dei luoghi comuni”bipartisan” che hanno dominato e stordito la scena politica negli ultimi anni: insomma, parole d’ordine, e conseguente identità, chiaramente riconoscibili come “antisistema”.

Ciò significa riconoscere di avere scopi incompatibili con la gestione privata e privatistica del credito al lavoro, all’iniziativa economica per i reali bisogni, ai progetti di vita: soprattutto quando si constata il modo in cui le banche hanno usato e tuttora usano gli aiuti pubblici ricevuti (a rimedio dei loro peccati, ma senza ravvedimento) tanto dal nostro governo quanto attraverso il cosiddetto “quantitative easing” francofortese (che oltretutto sta per finire, generando prevedibilmente emergenze sociali senza precedenti). Pertanto, ciò significa pensare e parlare di nazionalizzazione di importanti banche. Quando e come, si vedrà.

Ciò significa poi riconoscere di avere scopi incompatibili con la gestione privata della rete dei trasporti ferroviari, di quella postale, e possibilmente anche di altri fondamentali servizi di pubblica utilità. Nonché con un ruolo limitato e residuale della diretta amministrazione pubblica (vedi il penoso capitolo delle cosiddette “esternalizzazioni”, di cui la vicenda Consip non è che un pur importante segnale rivelatore).

Ciò significa poi riconoscere di avere scopi incompatibili con politiche che affidino soltanto alle private convenienze, da blandire o incentivare non si sa bene come (anche mediante condono di reati fiscali?) il diritto al lavoro stabile e dignitoso, e perciò anche riscoprire e valorizzare il grande capitale di idee e di progetto che Luciano Gallino ci ha messo a disposizione per servire questo diritto oggi.

Significa, anche riconoscere di avere scopi incompatibili con il silenzio e l’oblio che nascondono o rendono sostanzialmente irrilevanti i molti e annosi tradimenti di pubblici poteri nei loro rapporti con poteri nascosti, anche criminali, che hanno avvelenato l’anima della Repubblica e del suo stesso popolo, nei decenni passati e comunque tuttora (è ben difficile dire se ormai poco o ancora molto). E questo comporta fare chiarezza per via pienamente e risolutivamente politica ben più o piuttosto che per via giudiziaria (lungo la quale forse non ne avremo mai, né del resto è detto che ne avremmo in modo veramente risolutivo e non ambiguo, come la triste vicenda iniziata proprio del 1992 dovrebbe insegnare).

Significa poi riconoscere di avere scopi incompatibili con ciò che oggi pretende di chiamarsi Europa: un’idea mai tanto avvilita e deformata nella sua storia almeno da quando le SS naziste osarono appropriarsene (fatte le debite proporzioni, ma tenendo conto dei rumori inquietanti che purtroppo percepiamo). Dunque, significa decidere in modo non troppo vago che cosa fare allorché l’altra Europa che vogliamo non si riveli a sua volta raggiungibile se non entro tempi  a loro volta incompatibili con la crescente febbre sociale.

Si tratta, concludendo per ora qui, di riconoscere di avere scopi incompatibili con l’appartenenza rigida a un’alleanza militare esclusiva e del tutto irrispettosa del carattere necessariamente collettivo, reciproco e multilaterale, di ogni sicurezza ragionevole e giusta. E significa riconoscere di avere scopi incompatibili con gli interessi di un’industria bellica che è tra le più importanti del mondo, e con il peso che essa mostra di esercitare sulla politica estera dell’Italia; dunque, con le nuove guerre (o “neoguerre”, come Umberto Eco le definì) ai cui orrori il nostro paese è stato indotto ipocritamente  a partecipare.

Soltanto se saremo chiari e decisi su questi punti potremo dire cose altrettanto chiare – e difficili, in questa atmosfera avvelenata – sui principi che dovrebbero guidarci e le azioni che dovremmo intraprendere quanto allo sterminato flusso di profughi che le neoguerre e la rapace distruttività del sistema cui ci opponiamo incomprimibilmente produce, e produrrà in modo verosimilmente crescente malgrado ogni ripugnante quanto ipocrito sforzo di contenimento coattivo e sostanzialmente punitivo.

Certamente non è facile essere all’altezza di mutazioni storiche imponenti e inquietanti come quelle che stanno caratterizzando questo secolo. Ma la rinuncia a tentarlo assicurerebbe in ogni caso un destino d’irrilevanza. Segni inquietanti ci sono, e suscitano paura diffusa. Lle reazioni scomposte che vediamo sono da mettere in rapporto con la gravità di tali segni, con la paura che consegue, e con il vitale e immediato bisogno di esorcizzarli per la via più breve e a spese del primo obiettivo visibile. Le parole che oggi devono risuonare forti sono parole che chiamino a temere proprio e soltanto la paura; a riconoscere che un domani può esserci, e può essere umano e ragionevolmente bello malgrado ogni dolore; che la guerra di tutti contro tutti, o di alcuni contro molti, non è il solo destino possibile.

Quando la realtà non ha niente di normale o di moderato, niente è più irrealistico, e niente allontana di più dal profondo e comune sentire di un popolo (per quanto latente e irriflesso, o deviato su manifestazioni incoerenti) che ostinarsi a prescrivere e prescriversi una preconcetta, vaga e convenzionale moderazione.

Raffaele D’Agata

 



Categorie:Uncategorized

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