Antifascismo antisistema

L’avanzata globale del fascismo alza il livello della sfida per la costruzione di una forza di sinistra coraggiosamente radicale nelle sue parole e nei suoi programmi, ossia adeguata alla radicalità della situazione.

 

Il fascismo è ritornato, è forte, e sta vincendo. Sta vincendo nella cultura, nelle menti, negli animi, e perciò sempre di più nelle urne elettorali. È ritornato più forte, in qualche modo più “maturo” e più abile. Per constatare la sua vittoria non è strettamente necessario vedersi negare le formali libertà di parola e di associazione, ossia trovarsi di fronte al suo potere duro. Naturalmente nemmeno questo è escluso nella possibile evoluzione di questo secolo malato, ma per il futuro più vicino è poco probabile che il tema debba essere tale. Frattanto, la forma mutante del virus ha imparato il potere morbido, e lo pratica con successo. Le schede elettorali lo confermano in modo tendenzialmente crescente in molti importanti paesi;  e dove ancora non investono governi neri o con forti sfumature di nero (come negli Stati Uniti, in Polonia, in Ungheria, e da oggi di fatto in Austria) comunque  veicolano la sua capacità di influire in modo efficace se non addirittura determinante sull’agenda del discorso e dell’azione nella sfera pubblica.

Il ritorno e la possibile vittoria del fascismo nella sua nuova forma mutante (quali che ne siano le future e ancora più temibili evoluzioni) è da riconoscere come il risultato politico globale più rilevante, a livello sistemico, della grande depressione degli anni dieci ossia della catastrofe della seconda globalizzazione, così come le guerre mondiali del Novecento e i fascismi furono il risultato della catastrofe della prima. Come allora, il male si diffonde nel vuoto determinato dall’assenza di risposte democratiche e popolari che siano almeno tanto radicali quanto la sfida rappresentata dalla crisi, cioè dall’erosione delle strutture materiali e culturali portanti di una nomale convivenza civile (sia come disagio assoluto, sia come carenza relativa di sicurezze acquisite).

I partiti della sinistra tradizionale, che talvolta ancora si fregiano di nomi gloriosi come in Germania e in generale in quel simulacro di rappresentanza democratica che oggi è il parlamento dell’Unione Europea, sono i principali responsabili di quel vuoto. Seguendo il disastroso esempio delle socialdemocrazie europee negli anni fra le due guerre mondiali del Novecento, e in particolare di quella tedesca, hanno professato una quasi entusiastica lealtà sistemica nei confronti dell’ordine stabilito: innanzitutto in termini ideologici, professando le sue false giustificazioni come adeguate rappresentazioni della realtà; e altrettanto (come effettiva conseguenza) in termini strutturali, assumendo come solo orizzonte praticabile gli stessi vincoli sistemici globali che oggi come allora producono incontrollabile febbre sociale e inquietudine di massa disponibile a seguire ogni aberrazione.

Forze di tipo nuovo ,che hanno unito più recenti aspirazioni e modelli di vita di genere libertario e solidarista con risorse culturali e valoriali (e sopravvissute esperienze organizzative) elaborate dalla storia della democrazia sociale, sono bensì riuscite a occupare spazi significativi in paesi come la Grecia e la Spagna. Tuttavia l’arretramento greco (su una linea ormai non facile da tenere) mostra anche quanto terribile coraggio possa essere necessario per rifiutare e rovesciare i vincoli sistemici globali, e quanto poco ovvio sia scegliere di averne (senza che ciò voglia o possa costituire qui un giudizio). In generale, poi, l’amalgama di culture e di mentalità che i nuovi movimenti rappresentano non si mostra ancora sempre ben riuscito, né pertanto efficace quanto dovrebbe. Questa è comunque la strada da percorrere, certamente, anche in Italia.

La sciagurata alleanza “antipopulista” teorizzata da Matteo Renzi come senso dell’ennesima ed estemporanea manipolazione delle regole elettorali imposta ad un misero parlamento in questi giorni (presentando e promuovendo un PD alternativo al “populismo” e soltanto “concorrente” del “centrodestra”) alza il livello della sfida. La alza, innanzitutto, per l’azzardata opportunità che essa offre alla destra semi-fascista o apertamente fascista di cui Matteo Salvini costituisce il punto di riferimento (riecheggiando in qualche modo la tentata “costituzionalizzazione” del fascismo mussoliniano  da parte dell’ultimo Giolitti, con la destra berlusconiana oggi nella parte di quella salandrina di allora). E lo alza per l’impellente necessità di contendere al potente richiamo e alla potenziale egemonia culturale del nuovo fascismo in tutte le sue forme (da quella salviniana alle sempre più pericolosamente rappresentative e assertive formazioni nere, fino alle diverse e diffuse forme di egoismo di massa e di astensionismo politico ed elettorale  generatrici di indifferenza davanti al male) la capacità di interpretare e orientare il malessere profondo e la sostanziale insostenibilità del sistema di cui le forze di governo sono state garanti nel corso della sua ormai lunga crisi.

La sfida, dunque, che è ormai anche una sfida antifascista tanto in Italia quanto nel contesto globale, è costruire un appello che sia insieme democratico e radicalmente antisistemico.

Raffaele D’Agata



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