Prigioniera di una troppo lunga storia di indecisioni, oscillazioni e scissioni, la residua sinistra parlamentare in Italia non appare in grado (né forse veramente desiderosa) di guardare oltre la difesa e la conferma del proprio limitato recinto. Non è detto che il tentativo di ripartire dai movimenti, verso ciò che è fuori da quel recinto, sia destinato a dare immediatamente risultati. Ma è la sola strada che valga la pena di prendere.
Tra i paesi più evoluti, come si usa chiamarli, l’Italia si distingue oggi per la quasi completa assenza di attori politici che rappresentino con rilevante consenso, e conseguente efficacia, gli interessi popolari più severamente colpiti dall’attuale configurazione del sistema sociale globale (sebbene proprio qui gli indici di malessere siano tra i più marcati entro il generale quadro della depressione). Pur essendo sfavoriti e contenuti per effetto dei vincoli stabiliti da sistemi elettorali ultra-maggioritari (i quali sempre tendono per natura ad emarginare ogni opzione radicale), tanto negli Stati Uniti con Sanders quanto in Francia con Mélenchon, e in Gran Bretagna con Corbyn, progetti politici di radicale rivolgimento dell’attuale configurazione del potere economico globale sono andati notevolmente vicino alla possibilità di competere credibilmente per il governo. Non fa veramente eccezione neanche la Germania, se si considera il peso che il partito della Sinistra riesce da anni ad esercitarvi a livello locale, rendendo sempre meno sostenibile il pregiudizio escludente professato e praticato dalla sempre più debole socialdemocrazia a livello nazionale. Come si spiega, allora, l’eccezionale ed ormai cronica debolezza della sinistra in Italia?
Un importante fattore sembra essere ancora, a distanza ormai di molti anni, il quasi violento trauma che sconvolse e scardinò il sistema politico italiano in tutte le sue componenti (inclusa quella culturale) all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, influenzando profondamente l’esperienza di una generazione: proprio di quella, cioè, che ha guidato e rappresentato variamente la sinistra italiana durante gli ultimi venticinque anni. Essendo bruscamente costretta entro le forme di un sistema politico tanto rigidamente quanto artificialmente dualistico, profondamente estraneo alla storia e perciò alla fisionomia culturale del paese, la sinistra italiana ha costantemente oscillato per lungo tempo tra sforzi di muoversi entro l’accettazione di quei vincoli ( e specificamente dell’obbligo delle coalizioni) e sussulti di ribellione tanto improvvisi quanto sterili. Mentre il dualismo coattivo aveva come principale effetto globale il durevole successo di una nuova destra affarista e corruttrice, l’opposizione al suo dominio assorbiva energie e volontà della sinistra entro il conflitto dualistico malgrado il carattere sempre più evidentemente artificiale del conflitto stesso nella cornice di imperativi di sistema sostanzialmente condivisi dalle maggiori forze.
A lungo termine, un effetto consolidato di tali sviluppi è una forte perdita di prestigio e di consenso popolare (non importa quanto realmente meritata, perché comunque oggettiva), per le forze politiche (non a caso ormai da tempo frammentate) della sinistra italiana politicamente organizzata. Nel corso degli anni dieci, il vertiginoso sviluppo di un fenomeno del tutto anomalo nel panorama internazionale, e difficilmente riducibile a una sola tra le sue contrastanti qualità e tendenze, come il movimento fondato e guidato da un comico, ha rappresentato anche il contraccolpo di tutto questo.
Composta ancora da elementi culturali eterogenei, tra cui nobili e sparse reliquie del comunismo togliattiano e berlingueriano non abiurato da una parte, e dall’altra forme evolute della contro-cultura estremista che già gli si opponeva (ma anche da velleità e inquietudini di segno vagamente “progressista”), la sinistra italiana oggi presente nel parlamento centrale e nelle assemblee rappresentative locali non ha saputo trovare un linguaggio condivisibile non tanto né soltanto al proprio interno, quanto soprattutto con la parte delusa e disorientata del paese reale che ogni sinistra degna del nome ha oggi il compito di rappresentare credibilmente. Una parte di quel personale politico (specificamente, quello oggi presente in Parlamento attraverso le discutibili maglie del sistema politico ed elettorale vigente) appare avviata a presentare una proposta elettorale incapace oggettivamente (e forse anche soggettivamente) di guardare oltre la difesa del proprio limitato recinto.
Ma c’è anche dell’altro: ci sono i movimenti diffusi che organizzano quel tanto di volontà e interessi popolari che ancora intendono tutelarsi ed affermarsi solidalmente. Questi movimenti stanno tentando di costruire direttamente una loro proposta rivolta innanzitutto a quella parte del paese (ormai quasi maggioritaria) che non sembra riconoscersi più in alcuna delle alternative offerte. Non è detto che questo sforzo possa dare risultati; né del resto appare scontato che sul suo cammino non abbia influenza l’eco delle diatribe passate (se è vero che un’influenza simile vi è stata, ed ha avuto effetto, in ogni precedente tentativo di unire al massimo le forze). Ma, considerando i risultati di quanto si è visto finora, è la sola strada che oggi valga la pena di intraprendere, e tentare di aprire.
Raffaele D’Agata
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