Dopo la sinistra

I dati circa il buon risultato conseguito da “Potere al popolo” in alcuni insediamenti popolari finora fortemente inclini ad affidare il proprio profondo disagio a una demagogia di tipo fascistico sembrano incoraggianti anche nel cupo panorama determinato dalle elezioni del 4 marzo. Conviene riflettere circa il modo di allargare queste brecce nel prossimo futuro.

Le elezioni politiche italiane del 4 marzo 2018 rappresentano l’umiliante e meritata fine di quasi tutto ciò che vi ha voluto chiamarsi e vi è stato chiamato “sinistra” nel corso degli ultimi venticinque anni, sotto forma di un radical-liberalismo sostanzialmente post-marxista e comunque contrassegnato da contaminazioni (tra quante la storia e la vita rendano comunque inevitabili) che raramente sono state tali da mantenere e sviluppare l’efficacia di aspetti essenziali della lezione marxiana (così come di quella gramsciana). Ciò non vale soltanto (e naturalmente) per il processo degenerativo che dall’intempestiva e non ben ponderata operazione della Bolognina ha condotto al renzismo, bensì anche per la storia della sinistra detta “radicale”, largamente influenzata dagli aspetti non marxisti (e profondamente liberal-radicali, appunto) delle culture politiche professate dai gruppuscoli post-sessantotteschi.

In quale misura l’esperienza di “Potere al popolo” si distingue dal contesto di una tale catastrofe? In effetti, pur essendo nata da uno dei cosiddetti “centri sociali” spesso anche se non univocamente o sempre benemeriti, e comunque generalmente caratterizzati da elementi di continuità con quel genere di culture, l’esperienza di “Potere al popolo” nasce proprio da un “centro sociale” fortemente anomalo per la sua pratica di rigore organizzativo e per la sua “egemonica” capacità di esteso radicamento popolare, come anche per una cultura politica che si mostra cosciente della necessità di riconoscersi in un percorso che venga da lontano (particolarmente, nella storia del movimento operaio italiano). La sua volutamente folle avventura mirante a coprire in poche settimane la distanza tra l’inesistenza politica e la presenza in Parlamento non ha raggiunto il traguardo. Tuttavia, questo sembra ormai chiaramente lo strumento da cui cominciare per ricostruire una politica democratica e rivoluzionaria.

I dati circa il buon risultato conseguito dalla lista in alcuni insediamenti popolari finora fortemente inclini ad affidare il proprio profondo disagio a una demagogia di tipo fascistico sembrano incoraggianti in questo senso. La breccia sembra suscettibile di essere allargata muovendo soprattutto in due modi.

Il primo sembra consistere nel concentrare gli sforzi, essenzialmente, verso una sempre maggiore sottrazione di consensi a quel genere di demagogia (così come alla demagogia pentastellata, mai apertamente né del resto univocamente fascistica, e tuttavia non sempre antifascista e sempre ambigua e contraddittoria). E sembra necessario farlo proprio praticando una demagogia alternativa: nel senso non negativo che questo termine aveva quando fu coniato ed è stato manifestato ampiamente dalla storia del suo uso da parte di conservatori e reazionari colpiti nei loro interessi.

Se è così, può valere la pena di riconsiderare criticamente la concentrazione del fuoco della polemica pre-elettorale sulla pattuglia capitanata dallo sfortunato ex-senatore Grasso, che da un lato (come si è visto) mirava a una porta aperta, e dall’altra poteva prestarsi ad essere malamente ma spiegabilmente interpretata come l’ennesimo litigio in famiglia della solita sinistra (falso, ma difficile da chiarire). Ma ciò significa anche guardarsi sempre di più dalla tentazione di abbracciare in un solo e totale insieme, ad un tempo, tutte le pur giuste esigenze sociali, politiche, e anche profondamente morali, che muovono all’azione e richiedono cambiamenti specifici; sempre cercando, piuttosto, di parlare al popolo e con il popolo di ciò che più immediatamente e più largamente gli preme, e rispettando i suoi sentimenti.

Sull’ ”Europa” e sull’euro, in particolare, il sentimento popolare è chiaro (e sarebbe fuorviante non vedere in esso una delle principali spiegazioni di quanto è accaduto il 4 marzo). Se questo sentimento continua ad affidarsi ciecamente a chi sappia meglio condiscendervi, anche se a suo modo e con fini perversi, è inevitabile porsi domande. Le parole chiare, semplici, inequivocabili, e tuttavia democratiche e internazionaliste, evidentemente non sono state ancora trovate. Né d’altra parte la giusta passione per la dignità incomprimibile di ogni persona, anche se reclusa per gravi reati, e non disposta a rinunciare a sfidare l’altrui e comune dignità come nel caso di molte persone mafiose o terroriste, poteva forse essere manifestata (senza perdere alcuna sostanza) con maggiore rispetto del popolo stesso cui parliamo: essendo cioè semplicemente pronti ad agire con silenzioso ed efficace discernimento a questo fine.

Inoltre, sulla base di una ferma autonomia culturale e pratica, i contraccolpi della disfatta del 4 marzo entro le residue forze ancora dette di sinistra nel nuovo Parlamento richiedono di essere seguite con attenzione, non certamente per patteggiare preventivamente alcunché (dall’esterno del Parlamento meno ancora di quanto avrebbe avuto senso fare al suo interno) con un personale politico ormai troppo compromesso dal peso delle sue passate responsabilità, ma per rispetto e capacità di dialogo con una parte di popolo che complessi sentimenti portano a riservargli un attaccamento non molto meritato ma impossibile da ignorare.

Tutto ciò corrisponde a guardare innanzitutto al popolo in carne ed ossa prima che a noi stessi, e parlare con il popolo in carne ed ossa prima che tra noi stressi e con i già convinti. Le premesse ci sono.

Raffaele D’Agata

 



Categorie:Uncategorized

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