Lavoro, civiltà e democrazia

Dobbiamo dunque considerare obsoleto l’ideale della piena occupazione in favore di un reddito universale comunque assicurato? Il lavoro (ma che cos’è il lavoro?) sarà sempre meno necessario? E ci sarebbe bisogno di una “sinistra”per questo?

 

Gli ideali del socialismo e del comunismo risultano, ad occhio, quasi del tutto emarginati e irrilevanti tra le forze storiche presentemente all’opera nel nostro paese, e non lo sembrano troppo meno altrove, specialmente in paesi simili al nostro. Soltanto di rado, inoltre, i movimenti politici variamente critici verso il sistema sociale vigente fanno uso di questi termini (cioè di quelli appropriati) per ragionare sulla crisi in cui versano (manifestata con drammatica evidenza dalle recentissime elezioni politiche in Italia). E questo muove a domandarsi se la crisi di consenso che affligge tali movimenti sia meglio spiegata diagnosticando che quegli ideali si siano affievoliti e alterati irreversibilmente negli animi e nelle menti, oppure osservando il modo in cui i movimenti politici che si propongono di trasformare il sistema sociale vi si riferiscono, o non vi si riferiscono. La risposta, comunque, potrebbe anche trovarsi in una combinazione di questi due elementi, e non è escluso che questi due elementi si siano influenzati finora vicendevolmente (in quale senso prevalente?)

La crisi del lavoro nella cosiddette civiltà “postindustriale” è certamente il primo dato da considerare a questo proposito. Infatti, la storia del socialismo e del comunismo si chiama ed è anche storia del movimento operaio, e come tale è inseparabile dall’idea di lavoro. Ma quale idea di lavoro, appunto?

Interagendo variamente con il pensiero alto e complesso che ha contribuito fortemente ad alimentarla, e in particolare quindi con il marxismo, la storia del movimento operaio (ossia del socialismo e del comunismo) è quella di un moto di emancipazione del lavoro che è stata anche orgoglio del lavoro come sede e fonte di valori superiori rispetto a quelli rappresentati e vissuti dalle classi sfruttatrici. Non c’è bisogno di addentrarsi in un lungo viaggio entro le multiformi sfaccettature dei testi di Marx sull’argomento (cominciando ovviamente dai Manoscritti giovanili) per rilevare intanto e prima di tutto questo dato storico. L’orgoglio dei lavoratori, che di loro fece spesso il nerbo di soggetti politici collettivi tendenti a orientare e dirigere la vita associata, e anche di farlo in misura rilevante, stava anche in una tale percezione di diversità, manifestata dal popolare diniego di ogni desiderio di “diventare signori”.

Storicamente, insomma, l’etica del socialismo e del comunismo non presenta con ricorrenza né evidenza significative alcun vero e proprio rifiuto del lavoro e delle sue ragioni, ed invece piuttosto l’aspirazione a un pieno recupero della sua dignità tramite la sua liberazione dallo sfruttamento e da altre forme di illibertà come la rigida separazione da scopi determinati, dotati di senso e voluti almeno socialmente (lavoro astratto), nonché dalla conoscenza e dalla bellezza.

Si può allora forse riconoscere storicamente nell’ideale del lavoro liberato – tanto nella civiltà del movimento operaio quanto nel pensiero forte e complesso che gli ha largamente dato alimento – qualcosa di illimitatamente arbitrario, o per così dire “giocoso”? Si può anche semplicemente provare a rispondere osservando che lo stesso gioco è qualcosa di serio e impegnativo, come ogni bambino istintivamente sa benissimo (senza neanche scomodare Huizinga). Ma appare anche necessario procedere più in là, fino a riconoscere nell’intrinseca socialità dell’essere umano, e perciò nel necessario riconoscimento dell’Altro non soltanto come limite ma anche come fine, e come condizione dell’essere di ciascuno, l’aspetto che instaura tra libertà e necessità un dialogo continuo e ineludibile, senza il quale la libertà stessa si svuota e perde consistenza.

Possiamo dunque, e davvero sembra che dovremmo, salutare negli inauditi attuali e prossimi sviluppi della tecnologia, dall’informatica alla robotistica, meravigliosi aiuti che l’ingegno umano mette a disposizione del lavoro onde questo si realizzi sempre più ricco di libertà, di sapere, e anche di bellezza, e sempre più lontano da prestazioni uniformi e ingombranti di energie fisiche e di attenzione esclusiva e ripetitiva. Ma c’è anche altro da fare, e non solo adesso e in attesa che ciò riguardi (e possa riguardare) per esempio gli schiavi bambini che nelle miniere africane estraggono le materiali risorse necessarie per rendere qui tanto facilmente disponibili quelle meraviglie. Sembra comunque esserci sempre da assicurare che tali tecniche siano sistematicamente a fianco dell’uomo, e sempre con l’uomo al fianco, e mai al suo posto.

La presenza e la cura attiva e reale di una persona non sono necessariamente superflue dove anche il più sofisticato apparato tecnologico risparmi la sua attenzione, il suo tempo, e la sua fatica, nel produrre lo stesso bene o nel fornire lo stesso servizio. L’attenzione che si libera può essere rivolta non soltanto alla conoscenza e al controllo del processo, ma anche alla gestione umana e consapevole, in ogni situazione, dello scambio sociale: a garanzia del carattere sociale, e perciò umano, della “materiale produzione dell’esistenza” di esseri che restino umani.

Non sappiamo quanto le necessità cambieranno con il progresso della tecnologia “labor-saving”, ma nemmeno sappiamo se dovremmo veramente desiderare, e potremmo concepire restando umani, che necessità non vi siano (anche se, possibilmente, sempre meno aspre, e non necessariamente amare). Per ora vediamo la terra troppo piena di fuoco e di sangue, e di fame, per essere soltanto ottimisti circa tali processi. E (anche in relazione con questo) abbiamo molto da fare per riconoscerci insieme necessari gli uni agli altri (ossia chiamati a scambiarci reciprocamente lavoro e reddito, non necessariamente nelle forme presenti), ciascuno secondo le sue capacità e il suo animo.

Raffaele D’Agata

 



Categorie:Uncategorized

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