Cultura di opposizione

“Potere al popolo” è finalmente una forza che ha saputo compiere una rivoluzione copernicana nel pensare la politica e il suo senso, adottando come primo scopo e come criterio  di successo la capacità di rappresentare società e realtà di classe, e considerando solo successivamente la conquista di posizioni entro il sistema dato della competizione politica.

Per dire di ciò che sembra quasi scomparso in Italia dopo le elezioni del 4 marzo, è bene cominciare a dire della prima causa della sua malattia mortale, cioè dalla rinuncia al proprio stesso nome. Non di sinistra, perciò, qui si deve trattare, ma di socialismo (ossia, anche, di comunismo, come era ben chiaro ad August Bebel). Ora, non è la prima volta che la morte del socialismo possa essere osservata e diagnosticata. Benedetto Croce parlò proprio così nel 1911, e la prima guerra mondiale sembrò presto dargli ampiamente ragione: allora, in verità, un po’ meno in Italia che altrove, mentre oggi il nostro paese presenta un volto politico che sembra avvicinarlo piuttosto alle quasi incontrastate derive fascisteggianti dell’Europa centro-orientale che alla promettente ripresa di autonomia sistemica e di radicamento popolare (all’altro estremo) dell’odierno socialismo britannico.

Dovrebbe essere quasi inutile ricordare brevemente per quale via siamo arrivati a tanto. Tutto cominciò venticinque anni fa, quando un processo di auto-distruzione venne alla luce ed esplose dall’interno di quello che era il più grande e prestigioso partito comunista nell’area mondiale di massimo sviluppo capitalistico, muovendo dall’idea che scopo della politica non fosse trasformare la società ma puntare a governarla nel modo che apparisse il più corretto o al limite il migliore nelle condizioni date, e nel quadro di una costante competizione di cui quelle medesime condizioni costituissero l’indiscutibile presupposto.

La cosiddetta “cultura di governo” è diventata da allora la patente richiesta ad ogni attore del gioco politico che aspirasse a meritare consenso, essendo a tal fine strettamente legata al concetto di “voto utile”. Naturalmente, il termine “cultura di governo” ebbe già un senso ben più complesso e una storia ben altrimenti nobile, indicando (nel Partito comunista togliattiano) non calcolo delle condizioni per vincere una competizione e conquistare comunque potere, ma tensione a interpretare comunque esigenze generali nel rappresentare e guidare la parte più attiva e consapevole, oltreché bisognosa, della società. In questi terribili venticinque anni, l’espressione ha significato invece poco più (quasi niente di più) che soggezione a quei vincoli. E una surrettizia eversione della forma di governo, da parlamentare in plebiscitaria, ha determinato un ambiente in cui la soggezione a quei vincoli ha finito per imporsi anche su alcuni tra i relativamente più generosi tentativi di preservare autonomia di classe e antagonismo sistemico entro le regole così contraffatte della competizione politica.

Tali aberranti costrizioni hanno agito in un’epoca di restaurazione, cioè di regresso a uno stato di rapporti tra economia e società, e specificamente tra capitalismo e democrazia, in cui alla democrazia ritorna a spettare la posizione residuale e condizionata entro la quale restava contenuta prima della seconda guerra mondiale. Ne è conseguita una strutturale carenza di rappresentanza politica del disagio sociale. Tale carenza è stata manifestata al culmine della depressione di questi anni Dieci, nel modo più  vistoso, dalla semi-estinzione di partiti denominati ancora socialisti ed eredi comunque di una storia prestigiosa in paesi come la Germania e la Francia; e, in Italia, dal logoramento e dall’estinzione in atto anche di quanto restava comunque vagamente legato a quella storia nella stravagante formazione politica provincialmente e commoventemente denominata “Partito Democratico” nello stadio più avanzato delle autodistruttive metamorfosi del ceto politico responsabile della dissoluzione del Partito comunista togliattiano.

Ma le forme organizzative che in questi anni hanno cercato di sottrarsi a quelle metamorfosi pagano anch’esse, nel loro complesso, il loro più o meno voluto oppure patito coinvolgimento nella distorsione della prassi democratica e nei conseguenti ricatti della cosiddetta “cultura di governo”. Anche e soprattutto in questo campo, dunque, è da un assoluto vuoto che ogni nuovo percorso deve cominciare.

A partire dallo scorso autunno, tuttavia, un tale vuoto ha cominciato ad animarsi di vita nuova. Emerge cioè una forza che ha saputo compiere una rivoluzione copernicana nel pensare la politica e il suo senso, adottando come primo scopo e come criterio  di successo la capacità di rappresentare società e realtà di classe (e più ancora di favorire auto-rappresentazione sociale e di classe), considerando solo successivamente la conquista di posizioni entro il sistema dato della competizione politica. È così, del resto, che il movimento operaio e democratico cominciò – dal nulla – quella che sarebbe stata la sua grande e certo anche terribile storia.

E il punto dove siamo, adesso, è di nuovo il nulla. Un nulla promettente. Potere al popolo.

Raffaele D’Agata



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