Una rivoluzione per, e con, “Il Capitale”

Come Antonio Gramsci salutò nell’evento del 1917 una vittoria eretica su una certa ortodossia che molto aveva contribuito a rendere  possibili l’incendio e la strage universali allora in corso, e in un ardito gioco di parole vi aveva visto una rivoluzione non soltanto contro il capitale ma proprio contro “Il Capitale” (in quanto non letto ma salmodiato in vuote formule), quasi allo stesso modo (apparentemente rovesciato) l’ortodossia odierna deve essere sfidata con l’aiuto della lezione non morta ma attualizzata ed efficace di quel genere di pensiero.

Come già un secolo fa la Grande Guerra interimperialista fu resa possibile anche da partiti che avevano tradito la causa del lavoro e della pace mentre salmodiavano ipocritamente formule ideologiche costruite con pezzi di marxismo irrigidito e sterilizzato, così oggi le tensioni interimperialiste (non meno che le sante alleanze imperialiste), i rigurgiti di fascismo, le guerre senza fine, e le migrazioni di massa, che guizzano come fuochi sinistri dalle macerie della Seconda Globalizzazione, crescono senza ostacoli a causa (invece) del totale ripudio della lezione marxiana da parte di una presunta “sinistra” auto-giustificata, auto-compiaciuta, sazia, e raffinatamente scettica. Il male ha infettato senza rimedio non soltanto le successive metamorfosi di quelli che furono i grandi partiti del movimento operaio occidentale dopo la catastrofe globale del 1989-91, ma (in questo o quel modo) ha toccato anche molti tentativi di contrastare la tendenza in atto, quasi mai del tutto immuni da forme di adattamento più o meno esplicito e consapevole alle suggestioni dell’ideologia dominante dalla fine del secolo scorso, eventualmente in versione ultra-liberale, e comunque non pienamente consequenziali nel rifiuto (se così non fosse stato, l’onda   di Seattle e di Genova non sarebbe rifluita né si sarebbe dispersa in mille rivoli).

L’ultima manifestazione di questo male intellettuale e ideale sta nella condivisione subalterna di valori e forme di discorso della classe dominante da parte di ampie sebbene sempre meno seguite aggregazioni di personale politico usualmente definite di sinistra, o meglio coincidenti con la “sinistra” accreditata in tale ruolo entro il sistema. In un soltanto apparente rovesciamento di termini (in realtà più simbolici che sostanziali), tale condivisione subalterna – che un secolo fa si manifestò infine sotto forma di social-patriottismo – tende a manifestarsi oggi prevalentemente sotto forma di una specie di “social-globalismo”, resa tuttavia ancora più misera per effetto del ben più scarso “dividendo sociale” che i rottami della globalizzazione sono in grado di distribuire al di là del cosiddetto “ceto medio riflessivo” (ed anzi ormai quasi entro i ranghi di questo). Né del resto si può trascurare che, tanto immediatamente prima quanto immediatamente dopo la grande catastrofe di un secolo fa, una certa subalternità culturale nei confronti dello pseudo-internazionalismo e dello pseudo-pacifismo dell’aristocrazia finanziaria aveva rispettivamente preceduto e seguito la forma social-patriottica della medesima e fondamentale subalternità. Altrettanto, quindi, non si può nemmeno escludere che la sua versione social-patriottica possa riprendere vita – conformemente, tra l’altro, alla costante ed efficace presenza del modello culturale sionista – in connessione con la crescente incidenza dell’aspetto bellico della crisi globale (non si sa se sotto la forma del talvolta invocato “patriottismo europeo”).

Del resto, il declamato globalismo, e la connessa retorica anti-“sovranista”, della classe dominante non è che un instrumentum regni da usare solo fin ché serva, e perciò sempre suscettibile di essere gettato alle ortiche in relazione con le mutevoli convenienze di questa, globali oppure proprie di suoi singoli e concorrenti settori. Mostrare di crederci non contraddistinguerebbe persone libere, né particolarmente sapienti (come si può obiettare ad estensori e  firmatari del cosiddetto manifesto “anti-sovranista” emesso in Italia pochi giorni fa). Le forze della democrazia, del lavoro e della pace, che si stanno riorganizzando su base autonoma e coerente in alcuni paesi europei (ultimamente anche in Germania) avranno successo se sapranno a loro volta e a loro modo praticare un sapiente distacco nei confronti di tali convenzioni correnti (e largamente imposte) del linguaggio politico, salvo sapere e ricordare di essere depositarie di un vero, non ipocrita e socialmente fondato internazionalismo, ossia di interesse autentico per le necessità che il genere umano (sfruttatori a parte) condivide.

Come dunque Antonio Gramsci salutò nell’evento del 1917 una vittoria eretica su una certa ortodossia che molto aveva contribuito a rendere  possibili l’incendio e la strage universali allora in corso, e in un ardito gioco di parole vi aveva visto una rivoluzione non soltanto contro il capitale ma proprio contro “Il Capitale” (in quanto non letto ma salmodiato in vuote formule), quasi allo stesso modo (apparentemente rovesciato) l’ortodossia odierna deve essere sfidata con l’aiuto della lezione non morta ma attualizzata ed efficace di quel genere di pensiero.

Il movimento di riscatto del lavoro e della fratellanza umana, che sta rinascendo, ha bisogno di nutrirsi anche di studio e di sapere. Ha a disposizione vasti giacimenti in parte abbandonati di risorse intellettuali  per riflettere – per esempio, non tra i meno utili oggi – su moneta locale e moneta internazionale e sui reali e non immutabili rapporti di forza che ne regolano i nessi, sulle forme storiche e le implicazioni politiche, sociali e culturali della produzione di denaro e sulla sua regolazione a beneficio di chi e di quanti. Basterebbe per esempio prestare più attenzione alle origini (se non anche alle finalità) ultra-nazionaliste e ultra-sovraniste del processo che portò alla cosiddetta globalizzazione a partire dal 1971 e da Washington per ottenere un enorme risparmio di fiato, di carta e di byte, e una loro destinazione più utile. E se ripenseremo al modo in cui pace commerciale, ragionevole certezza e tendenziale costanza del significato dei segni monetari, e necessità reali, sembrarono avviate ad essere tenute insieme e favorite per un breve periodo a metà degli anni quaranta del Novecento (e in parte lo furono poi per oltre due decenni malgrado molte limitazioni successivamente imposte in vario modo), saremo in grado di fronteggiare le terribili sfide, che la precipitosa involuzione della crisi globale in corso purtroppo annuncia, non con l’assoluta certezza di evitare calici amari, ma almeno con punti di riferimento che difendano dalla disperazione. Anzi, con la ragionevole speranza nella rivoluzione che sempre deve in qualche modo animarci.

Raffaele D’Agata

 



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