L’augurio che ci facciamo, naturalmente, è che ci siano risposte largamente condivise. Ma bisogna verificarlo.
Chi e quanti potrebbero e dovrebbero presentarsi uniti per le elezioni europee del prossimo maggio, sfidando contemporaneamente sia la destra xenofoba e parafascista sia la destra cosmopolita e borghese? Per trovare la risposta migliore, un buon criterio può essere formulare domande precise e pertinenti, e verificare quanto largamente le risposte siano condivise.
Prima domanda. Siamo sicuri che sia meglio lavorare per una riforma democratica dell’esistente Unione Europea piuttosto che demolire buona parte o tutte le strutture esistenti per fare qualcosa di completamente nuovo? E qualora si trovi che sia meglio fare la prima cosa, il motivo sta nella valutazione dei rischi effettivi implicati dalle demolizioni, oppure nella considerazione dei rapporti di forza, oppure ancora nell’apprezzamento retrospettivo dell’Unione di Maastricht come tale da rappresentare comunque un progresso su cui fondarsi? (Barrare l’ultima casella significherebbe creare ostacoli insormontabili al proseguimento di qualunque discussione).
Seconda domanda. Qualora l’opzione a favore di una riforma democratica dell’esistente Unione Europea risulti largamente condivisa, quali azioni sarebbero previste di fronte a possibili nonché molto probabili dinieghi da parte del potere stabilito nei suoi vari livelli (anche e specialmente nazionali), o di fronte a riforme che vadano in direzione opposta da parte di questo, per esempio in materia militare e in materia finanziaria? Pratiche di disubbidienza a qualunque livello (comunale, regionale, “nazionale, e via ampliando) sarebbero escluse per principio, quali che siano le imposizioni da subire?r
Terza domanda. Una riforma democratica dell’Unione Europea, qualora sia riconosciuta praticabile, comporterebbe forse la formazione di uno Stato-potenza territoriale di tipo classico, oppure la critica al “sovranismo” (comunque si riesca a chiarirere il significato del termine) dovrebbe estendersi fino a mettere in questione una tale prospettiva. Quale rilevanza dovrebbero avere i confini esterni, tanto in relazione con la tragica realtà delle migrazioni di popoli quanto in relazione con l’evoluzione delle presenti contraddizioni imperialistiche del capitalismo già “globale”?
Quarta domanda. La conferma costante dell’adozione dell’euro dipende dall’analisi della situazione concreta e dal discernimento di rischi comparati, oppure è una questione di principio assolutamente pregiudiziale (in un senso o nell’altro, si può anche specificare)? Ed è o non è normale che la produzione di un bene pubblico come il denaro (variamente regolata a livello di Stati nazionali o di macro-regioni, e auspicabilmente in qualche modo a livello globale) sia un’attività privata (equiparabile alla produzione, alla domanda e all’offerta di qualunque merce), anziché un compito preminente della politica democratica secondo regole saggiamente stabilite? Si esclude o no qualunque misura contrastante questo stato di cose, a qualunque livello risulti possibile e necessario praticare in situazioni determinate? Se misure del genere sono escluse, lo sono per le loro possibili conseguenze non volute, o per ragioni di principio?
Risposte radicalmente diverse a queste domande renderebbero una proposta agli elettori, fatta in comune da tutti coloro che le dessero, del tutto inutile, dannosa, e perdente. L’augurio che ci facciamo, naturalmente e che vi siano risposte largamente condivise, e giuste. Ma bisogna appunto verificarlo.
Raffaele D’Agata
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