Le giovani piazze del mondo e i miserabili trucchi del Sistema

La generazione nata in questo secolo potrebbe non avere bisogno di troppe lezioni per sentire su di sé lo stretto rapporto che lega l’urgente de-mercificazione della natura con la non meno urgente de-mercificazione del lavoro e del denaro.

 

Il regime globale della Restaurazione, instaurato tramite la liquidazione di ogni residuo effetto della rivoluzione sovietica, dura armai da tre decenni. Durante questo periodo, l’apparente solidità del suo dominio è stata sfidata allo stesso suo livello globale almeno tre volte, una delle quali è recentissima, anzi tuttora in possibile svolgimento.

La prima sfida fu il movimento allora denominato “no global” cominciato a Seattle nel 1999. Questa fu schiacciata ferocemente ed efficacemente a Genova nel 2001 in una sarabanda infernale della paura come strumento di dominio: non casualmente, pochi mesi prima che questo fattore diventasse quasi il segno distintivo di un’epoca per effetto dell’oscuro episodio delle Torri Gemelle.

La seconda di tali sfide fu l’invasione delle piazze in gran parte del mondo contemporaneamente da milioni di persone contrarie all’aggressione statunitense in Medio Oriente nel febbraio del 2003. Priva di una soggettività politica collettiva capace di muoversi in modo conflittuale nella sfera del potere, questa seconda sfida non sopravvisse alla frustrazione dopo avere mancato l’obiettivo di impedire quell’aggressione e quella strage (tanto da lasciare via ancora più libera ad altre che seguirono).

La terza sfida, simile alla seconda per la sua estensione planetaria, è lo sciopero scolastico giovanile del 15 marzo 2019 per la salvezza del pianeta, dal momento che questa protesta (in modo più o meno pienamente consapevole) mette in discussione un aspetto essenziale del capitalismo, restato prevalentemente implicito nella critica di Marx in un tempo dominato da altre priorità attuali, e diventato adesso tragicamente e urgentemente attuale dopo essere stato sviluppato in termini teorici da Karl Polanyi: vale a dire, la sua posizione intrinsecamente incompatibile con la natura: umana innanzitutto, ma non soltanto.

I custodi ideologici e politici della Restaurazione nelle loro diverse inclinazioni, e soprattutto in quella pragmatica spesso definita di centro-sinistra (quando non, candidamente, di sinistra “tout court”) sembrano questa volta orientati a reagire in modo del tutto diverso rispetto al 2001: non con l’intimidazione violenta, cioè, ma con benevolenti lodi: tattica verosimilmente suggerita da speculazioni circa la giovane età delle persone mobilitate e dalla chiara intenzione di coprire la salvaguardia di interessi veramente essenziali con spettacolari operazioni di facciata.

Le due precedenti sfide al dominio globale della Restaurazione furono situazioni rivoluzionarie che non trovarono un partito rivoluzionario di massa (né localmente radicato in uno dei “punti alti di sviluppo” dell’economia e del potere né, tanto meno, internazionalmente diffuso) che fosse adeguato a servire le loro rivendicazioni mediante intelligenza critica e abilità operative adeguate. Poiché tuttavia le sorprese riservate dal corso profondo delle cose e delle idee (la famosa “talpa”, se si vuole) non sono mai del tutto prevedibili né da escludere, pensare ciò che il partito rivoluzionario, se adesso ci fosse o si sviluppasse, dovrebbe fare nella presente occasione, non sembra proprio inutile.

Un possibile suggerimento, di cui talvolta si legge, è cominciare preventivamente con il mettere in guardia il moto giovanile nei confronti della manovra avvolgente e inquinante del potere, che va indicando più o meno apertamente false via di salvezza dall’incombente catastrofe planetaria provocata dal capitalismo proprio mediante ulteriori iniezioni di capitalismo, più o meno mascherate. Secondo questa posizione, il moto giovanile per la salvezza del pianeta sarebbe quasi da abbandonare al suo destino qualora non sottoscriva preliminarmente l’idea che una riconversione ecosostenibile del modo di produzione (e di consumo) non possa essere opera di qualunque cosa si intenda come “mercato”, bensì debba necessariamente passare non solo per la socializzazione dei mezzi di produzione ma specificamente per la pianificazione come sola forma possibile di questa.

Ciò risente di un presupposto teorico molto debole, cioè che mercato e capitalismo siano termini coincidenti e intercambiabili: un presupposto che è fonte piuttosto di rigidità e di sostanziale inerzia che di iniziativa efficace per la trasformazione della realtà attraverso la realtà stessa. Piuttosto, il mercato capitalistico non è che una delle forme di mercato che si sono presentate in passato e possono teoricamente presentarsi in un futuro anche non lontano. A differenza di altre forme, cioè, il mercato capitalistico non è separato né distinto dal potere, e in particolare dal potere di coercizione ma, al contrario, vi si intreccia strettamente in svariati modi. Si va in questo senso dall’esercizio diretto della rapina come aspetto dell’impresa (lungo un percorso che va dalle attività della Compagnia delle Indie alla rapina del petrolio irakeno effettuata quattro secoli più tardi) al controllo globale di interi rami di attività produttive da parte di soggetti privati, per arrivare (soprattutto) alla promozione della guerra come fonte essenziale dell’accumulazione di capitale finanziario. L’uso esclusivo e suadente del termine “mercato” per descrivere o piuttosto mascherare questo insieme di fenomeni anche e soprattutto attuali dovrebbe essere fermamente contestato a tutti coloro che mostrano ed hanno interesse a praticarlo.

Nella sua forma presente, cioè, il capitalismo tende a fronteggiare l’oggettivamente ineludibile contraddizione tra il carattere sociale della produzione  e il carattere privato delle capacità e delle motivazioni a intraprenderla da una parte mediante una stretta simbiosi con lo Stato e con il suo potere coercitivo anche e soprattutto esterno  e dall’altro mediante processi sempre più avanzati di internalizzazione del potere da parte dell’impresa stessa che quasi riproducono alcune sue forme primitive e nascenti: dall’esercizio diretto di attività coercitive (in una gamma di fenomeni che includono il caso dell’UCK come il fiorente ramo delle imprese di “contractors”) al meno direttamente cruento controllo verticale ed esclusivo che soggetti privati esercitano non soltanto sull’attività produttiva ma di fatto sull’intera vita di vaste comunità (come il caso di Monsanto può illustrare).

Se è così, l’attuale moto giovanile per la salvezza della natura può svilupparsi con obiettivi vicini e individuabili che possano essere presi di mira adesso senza attendere che il sistema capitalistico sia stato preventivamente rovesciato (in qualunque modo ed entro qualunque spazio di tempo si intenda e si preveda che ciò accada), ed inserendo piuttosto entro il suo organismo elementi estranei e ostili, capaci effettivamente di agire contro di esso e di sospingere verso il suo superamento. Un esempio può essere costituito da lotte già in corso contro l’imposizione monopolistica (o feudale?) di determinati generi di sementi, specialmente se vi si aggiunge la lotta per il controllo sociale delle filiere nel settore agroalimentare; ed esperienze come quella di Via Campesina o dei Sem Terra hanno molto da dire in questo senso.

Di fronte al nuovo moto giovanile, insomma, mettere preliminarmente in evidenza il rischio di inquinamento da parte del potere, e la sua manifesta intenzione di usare anche un’ecologia più o meno adattata come occasione di affari (nonché possibilmente di accentuato controllo imperialistico che rafforzi gli attuali processi di sostanziale ri-colonizzazione) può comportare una certa sopravalutazione delle sue effettive capacità di disegno strategico. In realtà, il potere globale è tanto più pericoloso oggi proprio in quanto sembra procedere a tentoni (né appare ormai in grado di fare diversamente). Ma una tale sopravalutazione rischia anche di auto-realizzarsi almeno in parte, dal momento che l’approccio generale implicito in questo orientamento sembra offrire ai detentori di potere globale una mossa vincente: di fronte all’iniziale e più o meno matura diffusione di sentimenti popolari contrari ai loro interessi, basterebbe loro cioè pronunciare lodi condiscendenti e concedere il loro marchio per scoraggiare movimenti antisistemici dall’offrire a tali sentimenti popolari (innanzitutto condividendoli) un’interpretazione e una guida organiche.

La chiave risolutiva del dilemma, naturalmente, sta non solo nel riconoscimento dei costi certamente enormi di una reale inversione di tendenza nel rapporto tra economia e natura, ma fondamentalmente nella ripartizione di tali costi su spalle attualmente molto diverse. Non casualmente, la scintilla della ribellione francese in corso, che resta da considerare come possibile focolaio di un’ulteriore sfida al dominio globale della Restaurazione, è stata costituita da un episodio, perfino banale, che riguardava comunque questo genere di problema.

Certamente, dunque, il potere farà ogni sforzo per diffondere e inculcare l’idea che la natura possa essere salvata senza mettere in discussione la sua riduzione a merce, e forse perfino accentuandola ulteriormente; e soprattutto farà ogni sforzo per tenere nascosta la stretta e necessaria connessione tra la necessaria de-mercificazione della natura e la de-mercificazione del lavoro e del denaro. Ma non gli sarà così facile. Non innanzitutto la riflessione, ma innanzitutto l’istinto vitale è in grado di portare le persone nate in questo secolo a sentire come la mercificazione del lavoro (e il suo rovescio, costituito dalla sua crescente mancanza di richiesta) le priva del futuro in modo anche più immediato e insostenibile. E anche perciò sarà forse da loro che la rivolta contro il debito fittizio de la miseria reale, ossia contro il debito e la produzione di debito come fonte di valore e strumento di dominio (estrema metamorfosi della mercificazione del denaro) prenderà quella forza aggiuntiva, fatta di volontà e bisogno di vivere, che ne possa fare un aspetto determinante della storia di questo secolo.

Raffaele D’Agata



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