Pezzi di carta, tigri di carta, spettri di fumo – 2.

Come le forze democratiche e rivoluzionarie in Europa, rifiutando la gabbia dell’UE, possono introdurre fattori nuovi nell’evoluzione della presente crisi globale, tali da contrastare e invertire la tendenza distruttiva  della sua evoluzione sulla base dei fattori attualmente in gioco (anziché introdurre ulteriori fattori analoghi). È il secondo di due articoli.

Due, come si è cercato di mostrare nell’articolo precedente, sono gli insanabili difetti di qualunque disegno di riforma democratica dell’Unione Europea che muova da un presupposto di lealtà costituzionale nei suoi confronti (cioè della posizione che viene ormai spesso denominata “piano A” sebbene una parte consistente delle forze raccolte entro il Partito della Sinistra Europea non ammetta alcun altro “piano”). Il primo difetto consiste in una sproporzione enorme tra l’accelerato aggravamento della crisi sistemica globale (di cui le regole stabilite dai Trattati europei costituiscono uno dei fattori per quanto riguarda le sue manifestazioni locali in paesi come il nostro), e la durata imprevedibile (ma sicuramente almeno molto lunga) di un processo formale di revisione della Costituzione europea (cioè appunto dei Trattati che ne rappresentano la forma).  Il secondo sta nella contraddittorietà, necessariamente auto-frustrante e auto-lesiva, dell’idea di trasformare in democratica una costituzione antidemocratica accettando e seguendo le regole di questa, cioè proprio regole fatte originariamente ed essenzialmente al fine di contenere, restringere e imbrigliare la democrazia.

Tuttavia, come anche si è cercato di mostrare nell’articolo precedente, ciò non rende automaticamente e immediatamente sostenibile la semplice idea di uscire dall’Unione Europea su base sostanzialmente nazionale (cioè il programma ormai spesso denominato “piano B”). Passando per strumenti formali come la denuncia di trattati internazionali e per altri strumenti classici di politica internazionale, infatti, i  tempi di attuazione di un tale programma si prospettano solo limitatamente più controllabili, e  contraccolpi duramente negativi sono fortemente probabili durante il processo. Dunque, è necessario trovare e praticare forme di contestazione e rifiuto attivo delle regole stabilite dai Trattati europei che non siano vulnerabili da tali dinamiche sfavorevoli, e possibilmente conseguano risultati sostanziali in relazione con la situazione presente.

Il tema di questo secondo articolo è la ricerca di direzioni precise verso cui la lotta contro le regole stabilite dai Trattati europei possa svolgersi evitando sia le frustranti contraddizioni delle diverse forme di “piano A” sia le trappole di un “piano B” che non superi e non aggiri i condizionamenti formali del diritto internazionale, e non si renda impermeabile alla contaminazione da parte di orientamenti ideologici inaccettabili (che non abbia, insomma, assolutamente nulla di comune con il triste esempio del “Brexit”). Per cominciare, allora può forse l’idea di una “Costituente europea” (di cui talvolta anche si parla) essere una di queste forme?

Non sembra che lo possa, per ragioni di fatto e anche per ragioni di principio. Con un minimo di realismo, l’unico soggetto che possa attualmente prendere iniziativa in questa direzione è costituito dalle persone che andranno a collocarsi nei banchi di sinistra del Parlamento Europeo dopo il prossimo 26 maggio. Non si può prevedere se saranno più o meno poche persone, ma anche qualora non fossero troppo poche ed anche (soprattutto) se mai avesse luogo una convergenza su tale linea tra forze tanto divise tra loro quanto Syriza e France Insoumise, non ci sono tracce (se  non, appunto, in Francia sotto alcuni aspetti, ma finora senza estensioni adeguate a livello continentale) di conflittualità sociale e politica  abbastanza  intensa e diffusa per rendere credibile una rivendicazione così ambiziosa e radicale entro un ambiente istituzionale tanto poco permeabile. Più a fondo, poi, una tale idea è almeno implicitamente subalterna a uno dei presupposti fondamentali di ogni forma di “piano A”: cioè, l’idea di uno Stato federale europeo  come cornice e garanzia di uno spazio pubblico democratico (anche se, in questo caso, da conseguire per rottura anziché per molto ipotetica evoluzione). E su questo la riflessione non può essere troppo rapida.

Il problema del rapporto tra Stato e capitalismo reale, cioè, non appare semplificabile né rimuovibile in base alla semplice supposizione che uno Stato non “nazionale” sia per principio caratterizzato da meno forti aspetti del classico modello dello Stato territoriale sovrano, il cui stretto rapporto con il capitalismo lungo tutta la storia di questo è stato ampiamente indagato  e messo in luce. Non si può confondere la cornice istituzionale dell’Unione Europea con le inedite forme di “democrazia progressiva” rese possibili dalla rivoluzione antifascista, che per qualche tempo  permisero di legittimare istituzioni statuali e parlamentari senza  con ciò legittimare il capitalismo. Già limitate e contraddette in differenti modi per effetto della guerra fredda, e sostanzialmente sospese alla fine di questa, tali forme di democrazia  conservano tracce scritte cui resta ancora possibile fare rifermento come a fonte di legittimità del potere, ossia in qualche modo arma di lotta, in paesi come l’Italia, mentre l’Unione Europea è fatta proprio per rafforzare e rendere irreversibile la sospensione di quelle forme di statualità democratica. L’intenzione di introdurre oggi simili forme in un processo costituente di uno Stato federale europeo  presuppone un sommovimento rivoluzionario in atto e un partito rivoluzionario che sia in grado di influenzarlo, cioè qualcosa di molto lontano dalla realtà presente. E si tratterebbe poi di assicurare la compatibilità di una tale modificazione dell’equilibrio geopolitico globale con la necessità di ridurre (e non aumentare) l’acuto grado di instabilità e di caotica conflittualità che questo sta manifestando attualmente, in presenza di forze preponderanti che saprebbero bene come utilizzarla per i loro obiettivi. Troppe esigenze, insomma, vengono prima di poter formulare un programma del genere. Nelle condizioni date, a meno di pensare a qualche genere di nuova versione del fecondo ma contraddittorio e tragico rapporto tra rivoluzione e Stato messo in opera dal leninismo, contendere al capitalismo reale contemporaneo la ghiotta opportunità di una simbiosi con un nuovo ed enorme super-Stato sembra impresa piuttosto temeraria che ambiziosa, e non importa considerare quanto poco esso possa mostrarsi ghiotto di ciò al momento presente: l’appetito, in fondo, viene mangiando, o anche solo leggendo il menù.

 

Lo Stato territoriale sovrano moderno nasce e si sviluppa cioè innanzitutto come efficiente e conveniente agenzia di protezione e promozione di aggregati di impresa capitalistica, mediante la specializzazione, e la preponderanza entro ambiti variamente estesi, nell’esercizio di potere coercitivo. Direttamente o indirettamente (in particolare, ad esempio, “per procura” o per induzione) la guerra, e comunque la sua possibilità e  la sua disponibilità come strumento, gli è essenziale (così come è essenziale al capitalismo). Concepire un super-Stato federale europeo significa perciò anche avere un’idea circa il controllo e la gestione di un potenziale bellico nucleare che almeno uno degli attuali Stati membri (dando per scontato l’esito del Brexit) attualmente possiede, e sulla base di ciò anche un’idea circa le conseguenze che l’ingresso di un tale nuovo super-Stato abbiano più probabilità di produrre sull’instabile e caotico sistema globale delle potenze. Lo stretto rapporto che oggi esiste tra l’attuale Unione Europea e un blocco militare esclusivo ed aggressivo come la NATO richiederebbe almeno di essere spezzato preliminarmente rispetto ad ogni passo si intenda ipotizzare, non importa quanto caratterizzato in senso formalmente democratico, nella direzione di uno Stato federale che si definisca europeo. I princìpi essenziali che dovrebbero caratterizzare forze politiche democratiche e rivoluzionarie nella sfera internazionale globale (cioè il disarmo nucleare e la sicurezza collettiva, multilaterale e indivisibile) sono cioè messi fortemente a rischio, nelle condizioni presenti, dall’idea di uno “Stato federale europeo”.

Per quanto riguarda l’azione da svolgere in Italia, perciò, fare leva su risorse come la vigente adesione al Trattato di non proliferazione nucleare e l’Articolo 11 della Costituzione, pur ripetutamente e costantemente violato da governi di centro-sinistra o di centro-destra dal 1991 ad oggi, è un modo di servire quei princìpi che appare molto più coerente e sicuro, e le azioni di lotta da condurre su questa base sono ben più immediatamente riconoscibili e comprensibili per il popolo. Il carattere collettivo di ogni sostenibile idea di sicurezza, e la sua indivisibilità condivisa da Stati grandi e piccoli così come dai popoli e dalle culture che vivono entro i loro confini e attraverso questi,  rappresenta  un principio antitetico rispetto alle caratteristiche e al ruolo essenziali dello Stato in relazione con il capitalismo; ed è a partire da ciò che le dispute su sovranità e sovranismo, così insensatamente e inutilmente vivaci in ambito europeo, dovrebbero sciogliere le loro ingarbugliate contraddizioni.

L’affermazione del carattere collettivo e indivisibile della sicurezza non comporta però soltanto limitare l’esercizio del potere militare e della sua minaccia nelle relazioni tra gli Stati, ma anche garantire e realizzare il diritto di tutti gli esseri umani a una vita dignitosa. E ciò comporta lottare contro regole economiche e finanziarie come quelle vigenti (in particolare entro l’Unione Europea)  che proteggono esclusivamente qualunque genere di investimento e accumulazione di ricchezza privata, qualunque ne sia il contenuto, e comunque elevato sia il sacrificio necessario di più generali bisogni e interessi.

Poiché, appunto, le regole monetarie dell’Unione Europea corrispondono esattamente a questa concezione parziale e ingiusta della sicurezza economica, è chiaro che devono essere rifiutate e combattute. Si potrebbe anche parafrasare un celebre motteggio di Voltaire (secondo cui, mentre generalmente ogni Stato ha un esercito, solo in Prussia un esercito aveva uno Stato), per riferirsi al rapporto tra l’Euro e l’Unione Europea, per quel tanto di simile a uno Stato che in qualche modo essa presenta attualmente. In realtà Voltaire non aveva del tutto ragione nel vedere la Prussia di allora come un’eccezione, e sarebbe altrettanto sbagliato vedere un’eccezione nell’Unione Europea di oggi sotto l’altro punto di vista, non meno di quanto è sbagliato supporre che la sua trasformazione in Stato vero e proprio (dotato di governo rappresentativo) annullerebbe il problema: a meno che, naturalmente, il rovesciamento delle regole e delle funzioni che riguardano la produzione e l’offerta di denaro non sia perseguito innanzitutto e preliminarmente a qualsiasi livello di potere e di autonomia democratica ci sia modo e occasione di farlo, quali che siano gli sviluppi che in futuro si rendano concepibili quanto a tali livelli.

In altre parole, dovunque si diano strumenti di esercizio di potere democratico – dall’ambito municipale metropolitano a quello “nazionale” – nessuna possibilità dovrebbe essere trascurata, e nessun genere di mossa scartata preventivamente, per violare di fatto le regole vigenti. Tali mosse comprendono per esempio l’inventario critico del debito comunemente e non sempre fondatamente definito pubblico così come il ripristino delle funzioni di servizio pubblico spettanti per esempio alla Banca d’Italia prima della “riforma Andreatta” che attualmente le vieta di sostenere il corso dei titoli di Stato; e poiché l’euro resta a tutti gli effetti una moneta nazionale (legata a un sistema fiscale e a un servizio di debito pubblico nazionali) gestita privatisticamente a livello sovranazionale, violare di fatto il trattato che sancisce una tale abdicazione a livello nazionale non passa necessariamente per un cambiamento di nome che drammatizzerebbe inutilmente la questione. Senza parlare dei molti strumenti che tanto la storia quanto la teoria possono offrire in termini di moneta alternativa e di circolazioni parallele.

Non si tratta naturalmente di formule miracolose che assicurino risultati gratificanti e vicini. Si tratta però di un insieme di criteri che possono permettere di agire senza attendere eventi tanto straordinari e solenni quanto improbabili (da una parte), mentre (dall’altra) assicurano di mantenere e affermare un saldo e non contaminabile radicamento nella tradizione ideale (e, in particolare, nella prospettiva internazionalista e di classe) in cui un movimento politico democratico e rivoluzionario si riconosce, e per cui è riconoscibile.

Raffaele D’Agata



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2 replies

  1. Trovo molto interessante il ragionamento sulla difficoltà – che qui viene intesa praticamente come impossibilità – di instaurare un processo costituente europeo che possa costruire per l’Europa una cornice in qualche modo equivalente a quella che le costituzioni democratiche hanno rappresentato e rappresentano in Paesi come l’Italia.
    Mi permetto però di dissentire dalla rinuncia al progetto – da parte di una forza popolare che si vuole alternativa al sistema attuale – sulla base di considerazioni come, per esempio, quella che idea di uno “Stato federale europeo” metterebbe fortemente a rischio, nelle condizioni presenti, “I princìpi essenziali che dovrebbero caratterizzare forze politiche democratiche e rivoluzionarie nella sfera internazionale globale (cioè il disarmo nucleare e la sicurezza collettiva, multilaterale e indivisibile).
    E’ invece precisamente sulla base di questi principi che un movimento come il nostro, collegato con quelli affini in tutta Europa, dovrebbe promuovere una richiesta popolare di stato sovranazionale democratico – che a mio avviso sarebbe perfettamente comprensibile, e ben più efficace e all’altezza dei tempi (enorme riduzione delle distanze, della circolazione delle persone, in breve l’era della globalizzazione capitalista dispiegata).
    Ripiegare solo sui confini nazionali entro cui operano ancora le garanzie costituzionali del secondo dopoguerra, può sembrare più sicuro al momento, ma è illusorio e sicuramente perdente in prospettiva. Abbiamo bisogno di un rinnovato internazionalismo, prima di tutto a livello europeo, per combattere il capitalismo globalizzato con un minimo di efficacia. Questo internazionalismo non può limitarsi a momenti di reazione e di difesa, ma deve avere anche progetti propulsivi, come può esserlo la realizzazione di un Europa democratica e popolare contrapposta a quella delle lobby finanziarie.
    “Contendere al capitalismo reale contemporaneo la ghiotta opportunità di una simbiosi con un nuovo ed enorme super-Stato sembra impresa piuttosto temeraria che ambiziosa” a Raffaele D’Agata: a me sembra invece che l’idea di una Unione europea dotata di una Costituzione democratica vera e propria, superiore al coacervo di trattati che ora ne fanno le veci, per quante difficoltà ne costellino il cammino, anche sul piano militare e geopolitico – qui efficacemente evidenziate – sia l’unica realistica, l’unica in grado di dare una prospettiva a tutte le persone che in tutti i Paesi d’Europa lottano – finora purtroppo ciascuno per suo conto – contro gli stessi poteri economici e istituzionali che ci schiacciano.
    Questo non significa affatto che si debba scegliere questa sola via e non praticare anche tutte le forma di disobbedienza – di fatto, senza drammatizzazioni superflue e inutilmente dannose – alle regole vigenti, qui suggerite: “forme di contestazione e rifiuto attivo delle regole stabilite dai Trattati europei.”

    Ma bisogna contemporaneamente riconoscere che il piano B – come evidenzia il nome – è un ripiego, che non può essere adottato come prima scelta, mettendo troppo in fretta tra parentesi il piano A, giudicato troppo arduo, senza averlo sperimentato a fondo, e soprattutto senza mantenere all’orizzonte come oggetto di mobilitazione primario la spinta alla costruzione – direi la pretesa urgente – di un Europa popolare e democratica (oggi il capitalismo o si combatte a livello transnazionale o non si combatte).
    Non sono d’accordo sul fatto che “L’intenzione di introdurre oggi simili forme [ cioè di statualità democratica] in un processo costituente di uno Stato federale europeo presuppone un sommovimento rivoluzionario in atto e un partito rivoluzionario che sia in grado di influenzarlo, cioè qualcosa di molto lontano dalla realtà presente”. E’ proprio l’intenzione dichiarata che – sommata all’insostenibilità pratica delle condizioni di vita per le classi popolari – può mobilitare un movimento transnazionale che reclami una soluzione radicale per l’Europa.
    “L’appetito, in fondo, viene mangiando, o anche solo leggendo il menù.”
    Se ciò vale per il capitalismo, vale anche per noi: diamoci gli obiettivi che ci servono, anche se temerari. Se no che ci stiamo a fare?
    Un’iniziativa a favore di una Costituente europea, prima di essere presa a livello di Parlamento europeo, dovrebbe ovviamente essere prima stata oggetto di una mobilitazione dal basso transnazionale, tutta da costruire, ma costruibile, se decidiamo di farlo.

    • Mi sembra ci sia almeno accordo sul cominciare intanto con la disubbidienza attiva. Per il resto, mi sembra che il nodo sia più in profondità. Oltre le frasi citate (segno di una lettura attenta, di cui sono grato) ce ne è un’altra cuu tengo molto, cioè che sarebbe sbagliato supporre che uno Stato non “nazionale” sia per principio immune dai connotati classici dello Stato territoriale sovrano Mi preme molto anche l’analogia con la storia di un’idea ampia e complessa come quella di Germania e la sua costrittiva riduzione entro i termini del modello di Ststo territoriale sovrano tra Ottocento e Novecento: una storia non a caso tragica, perchè basata su una forzatura e una sostanziale amputazione (da Meinecke a Jaspers, c’ è tutta una preziosa elaborazione al riguardo). Per l’idea di Europa si pone un problema analogo. Non a caso, nelle raffigurazioni simboliche della sua imnagine cartografica (per esempio in banconote e monete) ci si imbatte sempre in imbarazzanti indeterminatezze. Riadsumerei così: mantenere e valorizzare mplte cose fatte prima di Maastricht, dimenticare e disfare Maastricht, ripartire da là per ampliare e rendere feconde forme di integrazione e di cooperazione aperte e non esclusive.

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