Il fantasma liberale

Con una critica del liberalismo che conduca ad approvare muri disumani non è lecito confondersi nemmeno di striscio. Ma non si può vincere sui Trump e i Salvini contrapponendo loro la visione essenzialmente liberale cui la sinistra occidentale si è sostanzialmente ispirata finora in questo secolo.

Naturalmente Vladimir Putin non ha fatto altro che sfondare una porta aperta nell’intervista rilasciata al “Financial Times” il 26 giugno scorso, nella quale ha criticato il liberalismo definendolo “obsoleto”. Immanuel Wallerstein aveva  constatato e argomentato una tale obsolescenza già venticinque anni fa in modo ben più complesso e sensato, in una raccolta di saggi (“After LIberalism”, New York, The New Press, 1995; it., “Dopo il liberalismo”, Milano Jaca Book, 1999) che ebbe purtroppo meno risonanza rispetto all’infelice canto di vittoria quasi contemporaneamente intonato da Francis Fukuyama in onore del “nuovo ordine” presuntivamente liberale (benché costituisse una delle più precoci e sistematiche confutazioni di quella teoria). Sfortunatamente, Putin sembra invece affidarsi a un pensatore torbido ed ambiguo come Aleksandr Dugin, certamente non antifascista ed anzi in qualche modo omogeneo al fascismo in quella distorsione beffarda di elementi di verità che concorre in modo essenziale a definire questo.

Con una critica del liberalismo che conduca ad approvare i disumani muri di Trump e di Orbán, e i porti chiusi di Salvini, non si può né si deve in alcun modo confondersi, sia pure di striscio. Non meno, tuttavia, di quanto sia sbagliato credere che si possa mai avere la meglio sui Trump, gli Orbán e i Salvini, contrapponendo a questi la visione essenzialmente liberale cui la sinistra occidentale (nelle sue diverse sfumature, e in modi diversi e più o meno diretti) si è sostanzialmente ispirata finora in questo secolo.

Come Wallerstein ha saputo illustrare, il liberalismo ha cessato di essere la cifra egemonica della modernità (per diventare si può anche aggiungere, la favola dominante della post-modernità) da quando ha cessato di assorbire e rendere in qualche modo compatibili a sé tanto le resistenze tradizionaliste (così da depotenziare e quasi neutralizzare queste) quanto (soprattutto) le spinte rivoluzionarie, così da tendere a moderare sé stesso incontrando ed elaborando con maggiore o minore coerenza ed efficacia, e con un culmine nel terzo quartile del Novecento, l’idea di eguaglianza. Il liberalismo del Novecento maturo finiva così per assumere come rilevante non più soltanto la forma pura della libertà, ma anche il suo contenuto e il suo peso; ma con ciò (almeno di fatto) finiva per riconoscere anche suoi limiti materiali e oggettivi entro i quali il suo effettivo esercizio fosse possibile per i molti, così da tendere a diventare concretamente universale. Proprio la critica di un tale riconoscimento, e della conseguente ammissibilità di quei limiti, è ciò che induceva Hannah Arendt a teorizzare la superiorità della rivoluzione americana su quella francese (e tanto più, va da sé, su quella sovietica); mentre, soprattutto, induceva Friedrich von Hayek a scagliarsi contro il New Deal (e contro ciò che per qualche tempo ne conseguì a livello globale) come intollerabile minaccia verso la libertà stessa.

La critica e il rifiuto di qualunque determinazione e finalizzazione concreta della libertà attraverso lo spazio pubblico ha rappresentato un elemento essenziale del rivestimento ideologico della geocultura dominante finora nel secolo presente, ossia della globalizzazione. La Sinistra occidentale ha prevalentemente reagito a ciò prendendo in parola un tale programma, e quindi cercando piuttosto di metterlo in contraddizione con sé stesso come promessa mancata che non di confutare e ribaltare l’intero apparato della globalizzazione: come se l’aspetto materiale e quello ideologico di questa non fossero inseparabili. Così, il condizionamento trasversale della sovranità degli Stati da parte di attori non statali, e in particolare la capacità da parte di questi di ignorare le frontiere (con o senza l’aiuto delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione), hanno finito per apparire irrinunciabili conquiste di progresso in quanto tali.

La constatazione che di ciò potevano fruire tanto i reclutatori dell’Uck e poi dell’Isis quanto le organizzazioni umanitarie autentiche era lasciata in secondo piano, generando una confusione non certamente utile a queste ultime. Allo stesso modo, il rifiuto ideologico, preventivo e assoluto, di strumenti nazionali di controllo e di indirizzo a fini sociali della mobilità dei capitali, e la conseguente diffusa percezione di insicurezza quanto alle opportunità di vita basate sul lavoro, non poteva e non può che inquinare e indebolire ogni pur giusto proposito di promuovere l’accoglienza delle persone migranti tenendo aperte le frontiere “anche” a queste.

Finché una tale confusione non sia chiarita ed evitata, i messaggi semplificati del plebeismo identitario, tradizionalista e intollerante, continueranno verosimilmente a prendere il posto dei miti di riscatto popolare che alimentarono la civiltà democratica del Novecento, e sono oggi e da tempo privi di interpreti adeguati e credibili entro lo spazio pubblico a un livello adeguato alle sfide che le metamorfosi del sistema sociale continuano a muovere agli interessi materiali della maggioranza della popolazione. Quei messaggi, di certo, sono moralmente ripugnanti e suscitano ormai in forma epidemica sentimenti e criteri di giudizio altrettanto ripugnanti. Confutare quei messaggi e contraddire quei sentimenti adesso e qui comunque sul terreno morale, e mediante scelte ed azioni moralmente motivate, è certamente dovere morale di ciascuno. Ma il compito della politica è essenzialmente diverso, anche se complementare (e necessario). La politica svolge pienamente il suo ruolo solo in quanto mediatrice tra l’utile e il bene, essendo molto attenta all’utile, ossia tra l’altro (e innanzitutto) agli interessi materiali delle persone in carne ed ossa, scegliendo quelli che abbiano maggiore possibilità di essere condivisi e di promuovere quindi condizioni oggettive favorevoli al bene morale: ma in quanto interessi.

Se dunque gli interessi della maggioranza della popolazione spingono questa a pretendere che lo Stato – e precisamente lo Stato nazionale – abbia forza e capacità di proteggere dalla precarietà e dall’incertezza che il sistema sociale oggi genera, nessuna predica circa le virtù e la superiorità morale del cosmopolitismo (inclusa, naturalmente, la sua variante europeista), indifferente al significato reale cui i reali processi in atto tendono a ridurre una tale esigenza dello spirito, può alterare questa realtà: pretese del genere possono soltanto spingerla (come accade) a lasciarsi rappresentare (e corrompere) da demagoghi maligni, per quanto fraudolenti. Idee come quella di sovranità democratica e di patriottismo costituzionale (ricordando a questo proposito che quest’ultima locuzione è stata coniata da un pensatore democratico assolutamente invulnerabile da qualunque sospetto di “rossobrunismo” come Jürgen Habermas) dovrebbero stare al centro di un’impresa di riconquista democratica dell’anima dei popoli, essendo certamente rese pure ed immuni da ogni trasfigurazione mistica e da ogni esclusivismo identitario, e perciò messe strumentalmente al servizio di un’idea di cittadinanza universale a sua volta resa pura (previa radicale rottura e apparente contromanovra) con la corrente versione ipocrita e maligna.

Queste riflessioni sono comunque dedicate oggi, come servizio reso, all’eroismo di persone come Carola Rackete e al destino, intimamente condiviso, dell’umanità in fuga, incarcerata e annegata sotto la sferza tempestosa di un sistema sociale mai così iniquo dopo i tempi del feudalesimo e della servitù della gleba. Il dovere morale di agire come lei, e con lei, resta per ciascuna persona in quanto tale, e naturalmente anche ai militanti politici in quanto persone.

Tanto più è urgente, e indispensabile, anche altro.

Raffaele D’Agata



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