Antifascismo russofobico? Cioè?

E così anche noi abbiamo il nostro piccolo Russiagate: ossia (anche qui) la maniera più sbagliata di contrastare il trumpismo-salvinismo (o anche, se si vuole, una coerente maniera di contrastarlo da destra).

 

I germi e le spore di fascismo che stanno invadendo e appestando l’aria del nostro tempo in Italia, in Europa e nel mondo, o piuttosto molti distinti elementi  che a suo tempo si combinarono tra loro per dare vita al mostro, non arrivano ancora a combinarsi altrettanto strettamente per riprodurlo tale e quale adesso. C’è sicuramente il razzismo, per quanto goffamente dissimulato nelle parole (e abbastanza meno nei fatti); c’è sicuramente la compiacenza retorica verso attese e paure del ceto medio (e anche ormai di estesi ambienti popolari) come accattivante involucro di una sostanza di complicità strategica con i più ricchi e potenti, vecchi e nuovi; c’è la promozione, l’esaltazione e la pratica di un genere di egoismo identitario più o meno etnico (combinato con buone dosi di egoismo individuale e proprietario), refrattario e ostile ad ogni idea di umanità condivisa, e pronto ad esprimersi tendendo all’annientamento puro e semplice, diretto o indiretto, dell’altro da sé (“Affondiamoli!”; “ Che anneghino!”; “Che muoiano di fame!”; “Stupriamole!”; e così via).

Tuttavia, nelle formazioni politiche  che con molte ragioni sono comunemente giudicate semi-fasciste o para-fasciste, e sono adesso al governo o lo condividono in modo determinante in paesi come l’Ungheria e l’Italia, un elemento essenziale e distintivo del fascismo appare assente:  cioè, la tensione e l’intenzione (diretta,  decisa e attuale) verso la  guerra. E ciò si può dire anche dei pur ripugnanti orientamenti  che sono arrivati a esprimersi e ad operare attraverso l’attuale presidenza degli Stati Uniti. Più precisamente, un tale elemento non è presente e non opera in questo genere di nuovi e inquietanti fenomeni politici più di quanto opera sempre in quanto associato con il capitalismo (se non forse, perfino, alquanto meno): cioè non nel modo acuto, pressoché immediato e strettamente co-essenziale, che si verifica nel fascismo. Nel caso nordamericano, questa essenziale incompiutezza si è recentemente manifestata nel contrasto tra il fascista Bolton e il fascisteggiante piccolo malfattore Trump. Questi – cioè – ha  comunque fermato all’ultimo istante i missili pronti per essere lanciati sull’Iran lo scorso 20 giugno. Con ciò, l’attuale inquilino della Casa Bianca non ha cessato di infierire su umanità innocente e indesiderata mediante muri, campi di concentramento, e battute di caccia all’uomo (e al bambino), e di meritare perciò ogni esecrazione; e tuttavia ha continuato a non seguire l’esempio di presidenti detti “democratici” come Bill Clinton e Barak Obama (e di conservatori presentabili in salotto come Bush il Vecchio e Bush il Giovane) nell’attaccare e distruggere paesi come prassi normale: cosa che l’Amica della Siria e Liberatrice della Libia, al suo posto, non avrebbe mancato di fare una volta o l’altra qualora le strane regole della competizione elettorale presidenziale nordamericana avessero giocato invece a suo favore nel novembre del 2016.

L’elemento che manca per una combinazione che riproduca tale e quale il fascismo storico (vero e proprio), cioè l’inclinazione fondante e costitutiva verso la guerra, appare piuttosto trasmigrato e trapiantato in questo secolo (per quanto finora ne è trascorso dal suo vero inizio, cioè a partire degli sconvolgimenti del periodo 1989-1992) nel campo  che tuttora si usa pigramente identificare con qualcosa come la “democrazia occidentale” (malgrado le metamorfosi di fine secolo che hanno reso sempre più inappropriato l’uso del termine “democrazia”, nei fatti largamente svuotata e depotenziata per dare lo spazio necessario a una selvaggia quanto caotica restaurazione capitalistica). Ciò  riguarda entrambe le varianti ideologiche, largamente intercambiabili, di questa forma di civilizzazione, cioè tanto la variante classicamente conservatrice quanto quella dichiaratamente “progressista”. La stessa cosa si può dire circa la costante preparazione della guerra e la sua pratica sfrenata oltreché in qualche modo irrazionale (si pensi infatti all’assurdo rapporto tra azioni e conseguenze, tanto verificate quanto prevedibili, nel caso dell’Iraq come in quello della Libia).

Entrambe le suddette varianti ideologiche mascherano con cura la loro bellicosità, riproducendo almeno una delle molteplici pratiche del regime hitleriano negli anni Trenta del secolo scorso, prodigo di enfatiche professioni autoassolutorie di intenzioni pacifiche destinate specialmente a benevolenti  interlocutori esteri e ad  estese componenti benpensanti del proprio blocco ideologico-sociale di consenso domestico. Quasi con altrettanta cura esse mascherano la loro politica di puro contenimento repressivo nei confronti delle immense moltitudini di fuggitivi dalla fame e dalla devastazione provocate nei paesi d’origine dalle loro rapine e dalle conseguenze delle loro guerre: evidentemente ben paghe (tutto sommato) di avere in personaggi come Salvini e nei suoi seguaci un  comodo pretesto per apparire innocenti ed umane. A chiudere il cerchio dell’autogiustificazione, non poteva mancare un nemico identificato quasi come “il centro del male”, che per noi europei, come anche per l’ “establishment” bipartitico d’Oltreoceano parzialmente sbilanciato oggi dall’irruzione del trumpismo, è ancora l’eterna Russia: cupa, autoritaria, e soprattutto minacciosa tanto nella sua versione zarista quanto in quella sovietica e adesso in quella putiniana.

Ora, la personificazione mitica di paesi, nazioni e culture, è sempre un’operazione scorretta, e soprattutto sospetta quando è chiamata a sostenere campagne di mobilitazione psicologica nei conflitti geopolitici potenzialmente militari. Se per un momento si volesse condiscendere a tali discettazioni, basta forse notare che questa  minacciosa  Russia, dai tempi di Carlo X di Svezia fino a Hitler, ha conosciuto stivali stranieri in casa infinite volte più di quanto abbia portato propri stivali altrove (come certamente ha anche fatto non più di altri, tra i quali noi italiani). La questione adesso è un’altra, ed è molto più complessa. È corretto cioè raffigurare Mosca come la stabile e motivata retrovia di sostegno della marea bruna che scuote l’Europa avendo alla testa personaggi come Orbán, Le Pen, e Salvini? Ed è corretto affermare che ciò corrisponda a un disegno che minaccerebbe la garanzia di diritti fondamentali?

Ci sono indubbiamente esternazioni dell’attuale e ormai quasi eterno presidente russo  che oggettivamente possono incoraggiare a una  simile conclusione. In particolare (ma non soltanto) la sua recente intervista al “Financial Times” (che è stata l’occasione per il precedente intervento in questo blog), nella quale non ha soltanto teorizzato la difficilmente contestabile obsolescenza del liberalismo ma ha manifestato comprensione per aspetti particolarmente ripugnanti delle politiche di Trump, di Orbán, e di Salvini, specialmente in materia di migrazioni. È anche vero, certamente, che molti o quasi tutti  tra gli oppositori di quelle politiche  sono effettivamente molto meno esenti da colpe, nel massacro dell’umanità migrante che si sta svolgendo in questo secolo, di quanto lo siano nelle intenzioni parzialmente professate. Tuttavia le parole contano, così come i consiglieri e i teorici cui ci si affida. E senza dubbio la Russia merita in futuro guide politiche e ispirazioni culturali più degne di ciò che essa ha dato all’umanità nel secolo scorso attraverso una grande rivoluzione e una storica vittoria sull’idra fascista. Ma per favorire tali sviluppi in Russia l’invio di stivali e carri armati alla frontiera baltica non è più ragionevole o più utile di quanto lo sia un eventuale invio di truppe da sbarco a Cuba per favorire sviluppi analoghi negli Stati Uniti (che tutto sommato, anche, meritano altro alla loro guida).

Raffaele D’Agata



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