Dovremmo cercare di leggere segni molto diversi, ma complementari, tanto del misero fallimento di un trentennio di Restaurazione quanto dell’insufficienza e del conseguente insuccesso di quasi tutti gli sforzi di resistervi e di contrastarla da parte degli sconfitti del fulminante biennio 1989-91.
Sebbene il bilancio di sangue dei moti di Hong-Kong sia finora quasi nullo, mentre in riva al Tigri e in tutto l’Iraq le vittime di una rabbiosa repressione ha già superato il centinaio in pochi giorni al principio di questo ottobre, le due situazioni si lasciano collegare come segni molto diversi, ma complementari, tanto del misero fallimento di un trentennio di Restaurazione quanto dell’insufficienza e del conseguente insuccesso di quasi tutti gli sforzi di resistervi e di contrastarla da parte degli sconfitti del fulminante biennio 1989-91. Per prima cosa, infatti, ciò che sta accadendo in Iraq (cioè proprio là dove i presunti vincitori di allora inscenarono, produssero ed effettivamente svolsero allora l’equivalente concentrato di una guerra mondiale allo scopo di affermare e sanzionare una nuova forma esclusiva e globale di loro dominio), può essere riconosciuto come l’indicatore più semplice ed eloquente della misera qualità politica, economica, sociale e morale di questa Restaurazione. L’intera operazione di liquidazione dei risultati effettivi della rivoluzione sovietica a livello globale può cioè essere messa a confronto con quella apparentemente analoga che riguardò gli effetti e i risultati reali della rivoluzione francese, a tutto vantaggio (paradossalmente quanto si voglia) di quella del 1815.
Mentre cioè gli attori del Congresso di Vienna si guardarono dal fare completamente piazza pulita di quei risultati (di alcuni dei quali, infine prevalenti, avevano già cominciato ad apprezzare i vantaggi dal loro punto di vista), la furia demolitrice dei presunti vincitori di fine Novecento operò con boriosa sicurezza unita a totale assenza di senso della realtà e di responsabilità. L’egemonia culturale degli Hayek, dei Friedman e degli Strauss (e insomma dei “ragazzi di Chicago”e dei “neo-conservatori”) su ciò che era pomposamente definito niente meno che la fondazione di un nuovo “ordine” mondiale fu cioè l’equivalente di ciò che sarebbe accaduto se menti come quella di Joseph de Maistre, anziché del disincantato e gelido Metternich, avessero ispirato l’opera del Congresso di Vienna (destinata, malgrado tutto, a risultare in un secolare periodo di sostanziale stabilità del sistema internazionale, nel cui quadro la rivoluzione borghese e liberale effettivamente accaduta trovò presto il proprio spazio). Le loro armi micidiali, il loro fuoco dal cielo, e naturalmente anche la presunta astuzia delle loro manovre senza principii, non hanno portato che decadenza, corruzione, miseria, terrore e disperazione, nei paesi che hanno preso di mira, situati nello spazio afro-mediterraneo e afro-asiatico della “umma” di cui troppo note ragioni rendono essenziale il controllo per chiunque voglia essere padrone del mondo. Con la cieca violenza del fuoco bellico si è infatti combinata la pochezza e la bassezza della loro visione del modo in cui la ricchezza debba formarsi, operare e distribuirsi (o non distribuirsi), aggravate dalla loro effettiva capacità di imporla.
La domanda che i fatti di Hong-Kong, a loro volta, spingono a formulare, è su quanto e se tale capacità sia stata contrastata, durante questo trentennio, dalla presenza di un potenziale contropotere mondiale come quello della Repubblica popolare cinese. In effetti (cominciando a tentare di contribuire a una risposta), conviene innanzitutto considerare che l’emersione sempre più vistosa di questa potenza presenta due aspetti distinti. Da un lato, cioè, essa rappresenta il ritorno ai punti più alti dello sviluppo economico e culturale di uno spazio di civilizzazione che vi si era tenuto lungamente, e spesso perfino in modo preminente, fino alla “grande divergenza” rispetto all’Occidente che ebbe luogo nella seconda metà del diciottesimo secolo. Da un altro lato, questa rinnovata potenza è anche il prodotto di una rinascita dello Stato cinese avviata per opera di una rivoluzione di tipo socialista; e questo Stato adotta tuttora i simboli, il linguaggio ideologico più o meno piegato alle esigenze, molte forme istituzionali, e la dichiarata enunciazione di finalità di fondo, il cui insieme fu introdotto nella storia nel 1917 come singolare ed instabile quanto necessaria sintesi tra moto di emancipazione e di riscatto dell’umanità lavoratrice ed esercizio di potenza sovrana.
Non è questa la sede né lo spazio (né vi sono le competenze adeguate in chi scrive) per tentare di offrire un contributo appropriato a quanto da tempo si dibatte circa l’essenza del presente “modello” cinese. Ma una domanda che può essere riconosciuta come utile da sollevare è comunque su quanto (e se) la realizzazione di tale “modello”, la sua presenza, e le corrispondenti azioni, abbiano influito finora sui processi globali: specificamente, su quanto (e se) abbiano influito sul panorama sociale dell’Occidente durante questa epoca di Restaurazione, piuttosto che adattarsi frattanto a quei processi fino a presentarsi come un elemento funzionale alla composizione di tale panorama.
Le idee alla base dell’attuale modello cinese sembrano da riconoscere in una lettura del marxismo che in esso sottolinea e mette in primo piano il concetto di sviluppo delle forze produttive come interesse del proletariato e pre-condizione per l’affermazione della sua egemonia e della sua piena emancipazione. A ciò corrisponde una forma di capitalismo “octroyé”, ossia artificialmente promosso e insieme condizionato e controllato dal potere del partito comunista. Non si tratta di qualcosa di nuovo. Il nocciolo essenziale della stessa esperienza sovietica non fu molto lontano da questo, ossia da una riproduzione artificiale e mirata di gran parte delle forme tecniche e organizzative del modo di produzione capitalistico, dapprima in forma aperta all’iniziativa privata durante il periodo della NEP, e poi nella forma di una diretta ed esclusiva assunzione del compito da parte del potere politico. Si può comunque notare che nel presente modello cinese (perfino più di quanto accadesse in Russia nella prima metà degli anni venti del secolo scorso) non sembra esservi traccia né del vincolo della piena occupazione né del “privilegio operaio” che in qualche modo emergevano dalle tragiche contraddizioni del periodo staliniano, mentre le loro sbiadite vestigia erano ancora riconoscibili nel più vivibile ma più torpido periodo brezneviano. Un’altra differenza è che, mentre le forme artificiali di capitalismo “tecnico” realizzate a propri fini dal potere sovietico non soltanto erano omogenee al modo di produzione “labour-intensive” della seconda rivoluzione industriale e dei suoi sviluppi, ma influenzavano tali sviluppi rafforzando il potere contrattuale della classe operaia, il capitalismo adottato e largamente concesso oggi dal potere del partito comunista cinese appare largamente permeato dai caratteri di una fase totalmente diversa della storia di questa forma di civiltà globale, nella quale la realizzazione del profitto si è liberata in larghissima misura dalla sua storica dipendenza dal fattore lavoro (e perciò da ogni possibile necessità di venire a patti con questo), e la produzione di denaro a mezzo di denaro ha ampiamente aggirato la necessità del passaggio attraverso la produzione di merci.
In un primo tempo (dagli anni ottanta del Novecento in poi, e in buona misura anche tuttora), l’inserimento dell’esperienza cinese in questo ambiente globale ha avuto luogo sotto forma di offerta di forza-lavoro a buon mercato come sostitutiva di quella messa ai margini in Occidente durante la dismissione di interi rami e di intere forme di produzione non più convenienti e tuttavia ancora, in qualche modo, corrispondenti a necessità: cosa che può anche rendere comprensibile la totale assenza del “privilegio operaio” spesso sostituito (di fatto) da qualcosa di opposto. Fin dal principio, però, l’accumulazione di capitale realizzata in Cina specialmente come frutto del vantaggio competitivo assicurato sul mercato globale dai bassi salari ha avuto i suoi sbocchi nel susseguirsi di bolle finanziarie generate dagli sforzi del governo nordamericano, crescenti a partire dagli anni settanta del secolo scorso, rivolti a colmare in qualche modo la propria crescente voragine di bilancio, dalla sua conseguente fame di capitali, e dalla selvaggia e corriva deregolamentazione usata innanzitutto come strumento per attirarli unitamente con una assertiva offerta di protezione (e con le attività miranti a produrne in un modo o nell’altro la “richiesta”). Le risorse insite nella rinascita cinese, con le caratteristiche specifiche che le sono conferite da un grande patrimonio culturale originario combinato con la forza liberatoria del marxismo (al di là dei limiti dell’interpretazione che oggi ne prevale in Cina), ai fini di una futura e feconda cooperazione entro un sistema globale diverso da quello presente, restano certamente enormi (Giovanni Arrighi ci ha lasciato su ciò molte indicazioni che restano valide). Ma per il momento sono semplici potenzialità, che gli sviluppi in corso non sembrano nemmeno favorire troppo.
Se si osserva allora come Hong-Kong, con il suo particolare statuto che (dopo il ritorno formale alla madrepatria) la rende sede di un “sistema” economico-sociale ed anche politico diverso da quello vigente in questa, sia soprattutto il ganglio nervoso centrale dell’interrelazione stretta tra la Cina e la finanza globale, si può forse ottenere qualche chiave per comprendere il carattere di massa della sua rivolta “arancione”. In particolare alcuni caratteri tipici ed essenziali di tutte le grandi odierne cattedrali della religione del denaro, cioè l’aspetto “a guglia” della piramide sociale, la divaricazione della forbice tra redditi massimi e minimi, e il prezzo esorbitante di ogni anche minima risorsa edilizia a fini abitativi, risultano presenti a Hong-Kong in misura tale da conferirle un poco invidiabile primato mondiale. Appare abbastanza plausibile che, se ciò non fosse, le pur diffuse nostalgie filo-britanniche, fatte anche di cultura e di sentimento, che muovono alla rivolta le sue enormi folle composte specialmente da giovani, non avrebbero un tale effetto se non dovessero combinarsi (a quanto si descrive) con l’esasperante e frustrante ricerca di una pur microscopica dimora adeguata a una vita adulta e con il quasi impossibile raggiungimento almeno per molti, se non per tutti, di situazioni professionali corrispondenti ai modelli che l’ambiente propone e quasi impone.
Una tale miscela esplosiva di motivi eterogenei, e di bisogni molto meno eterogenei e reali, trova davanti a sé come ostacolo un potere rappresentato da una bandiera rossa. E ciò può essere colto e intuito come metafora globale di tutto ciò che rende le nostre bandiere rosse, più o meno simili a quelle di un nostro passato glorioso che non siamo finora riusciti a rendere vivo oggi, così prive di significato per troppe persone cui pure una sua nuova vita sarebbe necessaria, e disperatamente guardano in direzioni diverse se non opposte. In questa situazione, dovrebbe apparire chiaro come molte agitate contrapposizioni tra spirito unitario e settarismo, responsabilità democratica ed estremismo, nonché “europeismo” e “sovranismo”, suonano stancamente estratte da calchi inerti di vicende di un passato totalmente diverso, nel quale i fatti corrispondenti a questi termini erano assolutamente diversi. La fulminante intuizione gramsciana circa l’evento del 1917 come antagonistico e confutatore di tutte le ormai stanche diatribe che dividevano il marxismo di allora (ossia come “rivoluzione contro ‘Il Capitale’”) dovrebbe perciò farci oggi da modello e da guida.
Raffaele D’Agata
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