Italy, U.S.A.?

Sebbene non tutto sia da scartare nell’esperienza elettorale locale del campo antisistemico lo scorso settembre in Italia, il futuro cui guardare appare composto soltanto marginalmente da appuntamenti elettorali e da risultati da conseguire in essi.

Mentre da una parte l’imbarazzante miscuglio di volgarità e di vuoto che caratterizza le ultime fasi della campagna presidenziale del 2020 negli Stati Uniti porta la politica d’Oltreatlantico a eguagliare e superare un modello di stile che quella italiana offre da tempo, dall’altra le regole effettive e realmente determinanti del  nostro sistema politico rendono questo sempre più simile a quello statunitense.  La drastica riduzione del numero previsto dei membri del Parlamento italiano , combinandosi con soglie di sbarramento e altri trucchi del sistema elettorale vigente (o di nuovi che vengano frattanto escogitati) tende cioè a perfezionare una configurazione del sistema politico che permetta alle diverse articolazioni o agenzie dell’unico potere di scegliere un elettorato conveniente, onde mettersi saldamente al sicuro da possibili fastidi comportati dal principio, formalmente proclamato e venerato, della sovranità popolare. L’allontanamento dal genere di avanzata democrazia che la Costituzione del 1948 aveva sancito in Italia (conformemente, appunto, a una profonda modificazione nella struttura del potere, allora recentemente avvenuta anche a livello transnazionale) si è insomma ingigantito ormai fino a somigliare a un ironico rovesciamento.

Ne deriva un enorme problema per tutti coloro che si associano politicamente mirando non semplicemente a determinare o influenzare l’attribuzione del governo di un tale sistema, bensì guardando al potere e alle mani che lo detengono, cioè mirando proprio a spostarlo in mani diverse. Ma, innanzitutto, di quali forme e di quali strumenti di organizzazione politica dispongono essi attualmente, in conseguenza di quali sviluppi (o involuzioni), che riguardino il modo di fronteggiare le regole alterate del sistema politico, e quanto al modo di fronteggiarle nel prossimo futuro?

Grossomodo durante la prima metà (dal 1992 al 2008) del periodo di frana e di decadenza della democrazia italiana che abbiamo attraversato finora, il campo politico che professava idee e rappresentava interessi almeno oggettivamente opposti a quelli del potere reale (ed era inizialmente piuttosto vivace ed esteso) non ha  saputo evitare una costante erosione, dapprima lenta e infine accelerata vertiginosamente fino alla catastrofe. Non appare lontano dalla verità associare ciò con la scarsa chiarezza del suo modo di intendere il proprio ruolo nella nuova situazione, fino ad apparire sostanzialmente privo di ruolo agli occhi di molti (cominciando ovviamente da quelli degli elettori, per quel tanto che il sistema permetteva loro di averne uno a propria volta). Il momento culminante, ossia la caduta finale nel precipizio, ebbe luogo dopo le elezioni del 2006, svolte secondo regole che accentuavano arrogantemente e goffamente (anche con aspetti di illegittimità) la trasformazione del sistema politico in senso bipolare e maggioritario. Il maggiore partito dichiaratamente antisistemico vi aveva partecipato all’interno di una delle due coalizioni previste e suggerite dalle regole, e sempre in base a queste regole aveva domandato e ottenuto limitate funzioni di governo (non certamente di potere) accompagnate dall’onorifico ruolo di presidenza di uno dei due rami del Parlamento così eletto, quasi dichiarando con ciò sanata l’illegittimità sostanziale del modo di elezione di  questo, e più in generale della torsione del sistema politico in senso diverso da quello realmente fondato nel 1948. Proprio perché il peso assunto da quel partito come componente cercata e sollecitata da uno dei due “poli” forzatamente creati era molto forte, cioè determinante per realizzare le immediate ambizioni dei leader di quel “polo”, questi avrebbero potuto e dovuto essere messi di fronte alla scelta di restaurare immediatamente il sistema proporzionale, oppure di rinunciare alle proprie ambizioni rivelando così definitivamente l’esilità delle ragioni della loro contrapposizione al “polo” concorrente. La scelta, come si è detto, fu contraria a questa. Nelle nuove elezioni politiche che seguirono due anni più tardi come conseguenza dell’estrema e irrisolta confusione tra lealtà di sistema e velleità di contestazione sul terreno sociale (e più in generale tra velleità di stabilizzazione del sistema politico in senso maggioritario e potere delle lobby e clientele che sostenevano  il progetto), fu possibile misurare la drammatica perdita di credibilità e di prestigio che da allora affligge quanto i media e il senso comune associano all’idea di Sinistra di fronte al pubblico.

Dovevano passare dieci anni prima che una nuova forma di pratica politica antisistemica coerente ed efficace prendesse vita con il nome di Potere al Popolo sulla base di esperienze nuove (ma non per questo marchiate dalla vecchissima narrazione del “nuovismo”) maturate specialmente entro una generazione a sua volta nuova. L’occasione fu l’irruzione di queste esperienze entro la ripetitiva e defatigante ricerca di accordi di cartello tra i gruppi sconfitti definitivamente dieci anni prima. Anche una parte di questi sembrò lasciarsi coinvolgere in un nuovo inizio che naturalmente non aveva il tempo dalla sua parte per ottenere risultati, ma certamente cominciava a invertire la tendenza che identificava ormai il campo antisistemico (a sua volta identificato con lo screditato e inquinato concetto di “sinistra”) con una condizione senile, sopravvissuta e stanca. E sebbene una parte dei gruppi esistenti inizialmente coinvolti abbia poi presto abbandonato l’esperienza onde garantire pregiudizialmente prospettive distinte (con conseguenze anche autolesive), la continuazione di questa ha comunque raccolto nella tornata amministrativa del settembre del 2020, con scarsissimi mezzi e superando ostacoli pesanti, una media nazionale di consensi equivalente a quella raccolta nelle elezioni politiche di due anni prima con l’apporto delle strutture organizzative comunque restate abbastanza solide di partiti un tempo forti.

Ma ciò che conta non è, fondamentalmente, questo. Se comunque si ha il necessario ardire di sollevare la questione del potere alla base del sistema, piuttosto che quella dell’amministrazione del sistema ossia del governo (e anche tenendo conto della non normale ma non preclusa possibilità di una qualche forma di complementarità tra i due approcci, storicamente esistita ma oggi remota), il futuro cui guardare da questo livello di iniziale ripresa appare composto soltanto marginalmente da appuntamenti elettorali e da risultati da conseguire in essi. Giocare secondo regole stabilite a proprio favore dal potere ha senso soltanto se gli scopi sono altri, come quello di suscitare e aggregare attivismo popolare, o perfino quello di acquisire risorse. In particolari situazioni, può essere perfino ragionevole suggerire voti a favore di personaggi meno pericolosi di altri, salvo essere pronti a combatterli il giorno dopo l’elezione.

Questo e non altro sembra dettato entro l’orizzonte cupo e chiuso che caratterizza il nostro tempo, almeno per quanto riguarda il terreno del potere e quello (subordinato e residuale) del governo. Molto altro si può certamente fare localmente e capillarmente, nei luoghi vicini del disagio sociale e nell’attiva solidarietà con gli oppressi della terra sempre più colpiti dalle sempre più sfrenate attività di rapina cui potenze grandi piccole e medie si dedicano in modo crescente in complessa relazione con l’evoluzione caotica di sempre più contrastanti convenienze tra grandi e piccoli competitori attraverso le prevedibili macerie di ciò che fu l’osannata globalizzazione. E per sviluppare al massimo la capacità di rispondere alle sfide non chiaramente prevedibili, e alle conseguenti sorprese, che un tale quadro lascia presagire.

Raffaele D’Agata



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