Rivolta e rivoluzione

La Grande Peste coincide, comunque, con l’ultima ora della Restaurazione. Ma da qui, dove?

Qualunque cosa sia per accadere, o piuttosto saremo riusciti a fare in modo che accada in futuro, è abbastanza certo che la Grande Peste degli anni Venti sarà ricordata come il fattore scatenante del crollo irreversibile  dell’equilibrio sociale su cui il potere della Restaurazione ha potuto conservarsi per almeno tre decenni. Di fronte alla paura della malattia e della morte, e più ancora ormai di fronte alla più immediata esperienza della privazione e spesso già dell’inedia, e nella confusa ma reale percezione che il potere non sa e non vuole proteggere da questa più di quanto abbia fatto finora, ogni forma di introiezione anche almeno passiva dell’autorità (già complessivamente debole e povera di contenuto motivazionale)  tende ad esaurirsi rapidamente.  Da qui si può andare in direzioni diverse, anzi opposte: tanto, cioè verso un equilibrio radicalmente nuovo e giusto, quanto verso una generale e comune rovina.

Le rivolte sono già una manifestazione frequente di questo stato di cose. Confuse ed eterogenee nei motivi e negli scopi immediatamente perseguiti, forse anche più di quanto fossero quelle europee del 1848 e i loro prodromi che diffondevano paura nel mondo educato e sicuro, queste di oggi si svolgono in un clima culturalmente e moralmente  poco ossigenato, nel quale almeno due generazioni oggi ormai adulte sono state educate a vivere senza politica, ossia senza veri partiti, immerse in una frenetica lotta individuale per la sopravvivenza ad ogni condizione, mentre gran parte di quelle più anziane sono state sospinte a dimenticare quanto già fu politica e democrazia, di fronte alle urgenze della medesima lotta.

Se il carattere ancora piuttosto composito dei moti del 1848 poté infine manifestarsi nel consenso sociale necessario per il Diciotto Brumaio di Luigi Napoleone, a maggior ragione c’è da temere quanto a ciò che la ben maggiore confusione di oggi possa anche, eventualmente, produrre. Una cosa tuttavia  è certa: non si può stare con il potere. Non si può aiutare la Restaurazione nei suoi ultimi affannosi sussulti. Tanto meno se si chiamano MES.

È tempo, piuttosto, di violare i templi: o, forse, di purificare templi violati. Tempo di volere che i cambiamonete ne fuggano, come un Caio Gracco del secolo scorso ebbe il coraggio di dire (da una sedia a rotelle) niente meno che di fronte al Congresso degli Stati Uniti, oggi costretto soltanto a chiedersi se sia per essere ancora un Caligola oppure un Tiberio ad arringarlo prossimamente.

Questa Restaurazione sarà ricordata come un tempo di torpida eclissi della cultura (eccezioni individuali a parte), cioè come un  tempo in cui i chierici si sono divisi prevalentemente tra sofismi oziosi e omaggi al potere, anziché arrecare la loro specifica funzione al necessario sforzo di cambiare il mondo e renderlo giusto. Lo sviluppo della coscienza generatrice di comunità e perciò di umanità, nell’irrespirabile deserto creato durante i decenni più recenti, si presenta forse più difficile che al tempo in cui Marx ed Engels intraprendevano la loro opera, anche se quell’opera resta con le sue lezioni da utilizzare e interpretare. Tra i due possibili esiti della catastrofe che stiamo vivendo (generale rovina o comunità umana libera e giusta) la presenza o l’assenza del partito rivoluzionario, che saremo o non saremo riusciti a costruire, farà la differenza.  

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

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