Bombarda, uccidi, e non chiederti che cosa dopo

Sebbene Israele non abbia perso nessuna delle molte guerre che ha condotto, non è per caso che non ha mai “conquistato” una pace decente per chiunque abiti le terre tra il Giordano e il mare con l’intenzione di restare umano.

Una delle più spregiudicate sebbene non dichiarate potenze nucleari ha dunque commesso un omicidio nel territorio di una potenza non nucleare considerata ostile colpendovi uno scienziato responsabile di un programma di sviluppo dell’industria nucleare, criticabile come ogni progetto del genere dal punto di vista ecologico (così come vari altri aspetti di quel regime da svariati punti di vista), e sospettato senza troppe prove di poter condurre quella medesima potenza a diventare potenza nucleare a propria volta entro un lasso di tempo imprecisato ma comunque non breve. Senza ripercorrere qui in poche righe l’intera storia dell’era nucleare dal punto di vista della politica mondiale, fissare alcuni punti chiave di questa può innanzitutto aiutare a definire bene la sostanza di ciò che è accaduto e sta accadendo in quella parte del mondo.

Torniamo dunque piuttosto indietro, e allarghiamo la prospettiva. Il Progetto Manhattan, che permise l’invenzione delle armi nucleari durante la seconda guerra mondiale, fu condotto originariamente negli Stati Uniti allo scopo esclusivo di arrivarci prima della Germania nazista e di impedirle di raggiungere l’obiettivo sottraendole innanzitutto il massimo possibile di risorse di conoscenza: in particolare, proprio il maggior numero possibile di scienziati. Il fisico danese Niels Bohr era il simbolo vivente di questo ultimo aspetto del piano con la sua avventurosa fuga dal proprio paese occupato, e anche uno dei più decisi nell’operare affinché l’impresa non servisse ad altro. A questo scopo, il 26 agosto 1944, ottenne di essere ricevuto alla Casa Bianca di Washington dal presidente Roosevelt, al quale consigliò caldamente la condivisione dei segreti nucleari  con i sovietici onde rendere la nuova terribile risorsa originariamente comune all’intera alleanza antifascista, e così prevenire una rottura causata da sospetto e un conseguente riarmo competitivo che avrebbe reso precaria la pace mondiale una volta che questa fosse finalmente conquistata a prezzo di tanto sacrificio.

Secondo le ricostruzioni e le testimonianze più autorevoli e credibili, il colloquio fu cordiale e positivo anche se non impegnativo da parte di Roosevelt. Ma che cosa avrebbe voluto dire “impegnativo”, nel caso di un Presidente? Non certo l’enunciazione ufficiale di una politica proprio in quel momento, cioè nella fase finale di una campagna elettorale presidenziale in cui egli era duramente sotto tiro, e in cui soprattutto egli  non era il candidato preferito da parte di un alleato che contava (cioè la Gran Bretagna) e già condivideva i segreti avendo perciò voce in capitolo sotto molteplici aspetti. Mosse coerenti in questa materia erano insomma rimandate a dopo novembre, a dopo la preparazione e allo svolgimento dell’appuntamento di Jalta, e a dopo  lo sviluppo coerente (non quello che di fatto avrebbe avuto luogo, mischiandosi con la leggenda nera successivamente associata a quel luogo e a quegli accordi) di quanto per Jalta si andava preparando.

Pochi mesi più tardi, gli Stati Uniti ebbero però un nuovo presidente, non per cause elettorali (a parte la partecipazione al “ticket” presidenziale, tatticamente imposta dalla durezza di quella campagna) ma per cause naturali: un presidente che aveva sempre coltivato idee abbastanza diverse. Ma di Harry S. Truman (cioè di un genere di persona che i tempi che viviamo ci costringono comunque addirittura, e quasi, a rimpiangere) vale la pena di ricordare una frase saggia pronunciata per troncare ogni discussione circa l’ipotesi di un attacco preventivo che negasse all’Unione Sovietica la possibilità di infrangere il monopolio atomico goduto dagli Stati Uniti fino al 1949: “una cosa è sconfiggere i russi; un’altra cosa è sapere che cosa fare dopo”.

Dubbi del genere, si sa, non sfiorarono le menti (se possiamo chiamarle così) di Bush il Vecchio nel 1991 e di Bush il Giovane nel 2003, e tanto meno di Sarkozy nel 2011. In modo un po’ più complesso, una certa analogia (quanto ad assenza di dubbi) si può anche trovare considerando il modo in cui, alla fine della guerra fredda, un vero e proprio e durissimo assedio economico-finanziario trasformò l’offerta di pace negoziale da parte dell’Unione Sovietica nell’imposizione di una resa incondizionata (più o meno come nel caso della Germania nel 1918, e con conseguenze simili sul successivo equilibrio e sulla successiva vivibilità del sistema internazionale).

Ma è verso le menti che governano Israele che l’apologo soprattutto funziona, e funziona spietatamente. Sebbene Israele non abbia perso nessuna delle molte guerre che ha condotto, non è per caso che non ha mai “conquistato” una pace decente: decente non soltanto  per le vittime dirette delle sue vittorie, ma per chiunque abiti le terre tra il Giordano e il mare con l’intenzione di restare umano. “Non vogliamo garanzie internazionali”, l’ambasciatore israeliano disse a un compiacente Henry Kissinger nel 1973, “vogliamo garantirci noi stessi”. Questo approccio non è mai cambiato, ed è naturalmente alla base del fallimento dell’idea stessa delle Nazioni Unite, e del caos violento e generalizzato che ne consegue specialmente dopo la fine dell’equilibrio bipolare.

C’è veramente, in quelle menti, un’idea credibile di un assetto di pace stabile nella parte del mondo in cui si trovano? Lo strombazzato “riconoscimento” da parte di sontuose e retrive monarchie arabe ne costituisce forse la premessa, o non impegna piuttosto gli apparati israeliani di “sicurezza” in ulteriori compiti di consulenza e supporto a tutto quanto di retrivo e repressivo operi al mondo, come già accade? Incidentalmente, del resto, che cosa rende la teocrazia iraniana (dove almeno si vota, in modo appena un po’ più precondizionato che altrove) più presentabile della teocrazia saudita? In ogni caso la profezia di Tony Judt circa l’impossibilità per Israele di essere contemporaneamente la democrazia che pretende di essere “e” uno Stato nazionale, ossia soltanto ebraico e tendenzialmente di “tutti” gli ebrei, si avvera. Sono gli Stati che producono le nazioni, ossia le comunità di diritti e di doveri, non viceversa. Casi diversi nella storia sono stati soltanto apparenze, o meglio risultati precoci (come in un certo senso la Francia) successivamente idealizzati. E infatti, quando una realtà complessa come la “Germania” fu portata a imitare fuori tempo un tale miraggio, ne scaturì una serie di catastrofi. Riusciranno gli ebrei di Palestina a fermarsi prima che questa visione distorta delle cose li spinga oltre, lungo una serie di follie, fino a catastrofi (se possibile) ancora più gravi?

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

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