Un “nuovo” partito? Per “contenere” le disuguaglianze?

Vasto programma. Vasto abbastanza perché Renzi, D’Alema e Zingaretti ne discutano insieme contro “sovranismo” e “populismo”.

La tavola rotonda telematica promossa dalla Fondazione Italianieuropei il 6 dicembre è stata un’utile occasione per riepilogare in sintesi una quantità di cose in cui non bisogna credere, di propositi che non bisogna darsi, e di abitudini da dismettere. Tra queste appare sempre più necessario annoverare l’uso, persistente in modo più diffuso di quanto sia ormai sensato o significativo, della parola “sinistra”:  qualificazione terminologica ormai impossibile da condividere con quanti dicono di credere in quelle cose (disponendo anche di soverchiante forza mediatica), e soprattutto le fanno, senza generare una disastrosa confusione.

Persone con ruoli e modi di vedere diversi come quelli (incredibile a dirsi?) di Matteo Renzi e di Massimo D’Alema, di Nicola Zingaretti e di Ely Shlein (nonché purtroppo intellettuali teoricamente capaci anche di guardare più a fondo e più lontano) hanno cioè testificato di avere abbastanza in comune per pensare a un nuovo partito (appunto) “ di sinistra”, sia pure in termini per ora soltanto accademici. Parafrasando una felice e penetrante battuta di Fabio Mussi a proposito del Partito democratico mentre questo era sul nascere (“quanta esagerazione in due sole parole!”), si può riconoscere una grandissima confusione concentrata in queste tre.

“Nuovo” non sta infatti qui che per “ulteriore”. “Sinistra” sta inesorabilmente per “destra” o al massimo per “centro” quanto alle cose a ai fatti che la maggior parte di coloro che ne hanno rivendicato l’identità hanno prodotto negli ultimi tre decenni e qui non è messo in questione nel suo nucleo, salvo aggiustamenti. “Partito” sta altrettanto inesorabilmente per poco più che “comitato elettorale” (qualunque cosa si pretenda dirne di diverso) nel contesto istituzionale stravolto che si è sostituito in modo strisciante al genere di democrazia delineato nella nostra Costituzione per quanto ne resta di fondamentale dopo i colpi ricevuti; a meno che (come non sembra affatto essere il caso) le retoriche che hanno presieduto a tale stravolgimento, e fanno ormai parte della storia e dell’identità di gran parte dei convenuti, non siano seriamente sconfessate e sostituite dal proposito di emendarsi e di rimediare (eventualmente anche uscendo di scena con pudore).

Vero è che  l’ospite e promotore dell’evento, cioè Massimo D’Alema, ha manifestato ripensamento circa la retorica maggioritaria del “cinquantuno per cento” e il conseguente precetto di dare la caccia innanzitutto a elettori moderati ossia di centro, ed ha quindi evocato il “nuovo” partito “di sinistra” come un’esigenza  avvertita da un trenta per cento di italiani. Non è chiarito se un tale trenta per cento sia da riferire, ipoteticamente, al sessanta circa che in media trova attualmente motivi per andare a votare oppure all’insieme totale (o solo al novanta che usualmente ne trovava, un tempo). Non è nemmeno chiarito quale reale influenza possa esercitare  domani qualunque percentuale sulla composizione effettiva e sul ruolo del Parlamento rattrappito concesso abbastanza volentieri dal PD al partito dell’antipolitica in cambio di grandi opere  e disciplina “europea”.

Sembra comunque evidente (per l’appunto) che proprio tale disciplina, ossia la lealtà costituzionale verso il regime di Bruxelles come alternativa all’effettiva lealtà verso quanto di non stravolto la nostra Costituzione conserva, rappresenta l’ingrediente fondamentale della ricetta che l’evocato trenta per cento sarebbe ansioso di gustare. Nella misura in cui una tale proiezione numerica sia da intendere come realistica, sarebbe perciò  molto interessante disaggregarla nella sua possibile composizione sociale. Un indizio chiaro è che, mentre qui si parla di “contenere” le disuguaglianze in crescita a causa della pandemia cioè di convivere con un buon grado di queste (implicando che la loro lontananza da un grado accettabile non fosse nemmeno così tragica nelle condizioni normali che le politiche di questa sinistra hanno largamente contribuito a determinare più che solo a mantenere), la contrapposizione al “sovranismo” e al “populismo” è affermata con enfasi e determinazione inversamente proporzionali (come sempre) all’afferrabilità dei rispettivi concetti.

“Riformare il capitalismo”, come anche si è sentito dire nel consesso, non è poi neanche una cattiva idea, in sé. La storia dice che, quando si comincia seriamente, i piedi pestati (e grossi) sono molti, e volendo continuare seriamente bisogna essere disposti a dare luogo a processi capaci di andare molto più in là. Ma questi nostri bravi riformatori non hanno ancora spiegato come si possa anche soltanto cominciare essendo leali verso roba come il Fiscal Compact (e perciò il MES, che lo presuppone e ne è implicato), per dirne soltanto una.

I tempi che viviamo distano da tutto ciò che si possa intendere come rassicurante normalità quanto poche altre volte è accaduto in passato. Corrispondentemente, le posizioni da prendere non hanno niente di comodo, neanche concettualmente. Se è vero che combattere in radice le convenzioni stabilite nella Restaurazione di fine secolo, e accettate dalla “sinistra” allora e poi in questo, può apparire poco realistico in tempi prevedibili entro la gabbia istituzionale e mediatica che le difende e le impone, è anche vero che professare moderazione in una realtà sempre più estrema è una mancanza di realismo assoluta e stabile, e soprattutto potenzialmente disastrosa con l’andare del tempo. Le cattive notizie che la realtà sembra avere anche in serbo per coloro che si dedicano a “contenere” (e riformare a parole) possono essere terribilmente cattive per tutti, naturalmente.  La fortuna potrà essere favorevole o sfavorevole verso chi si ostina a lavorare (anche per loro) affinché  ci sia qualcosa di meglio da scegliere.

Ma ostinarsi bisogna.

Raffaele D’Agata



Categorie:Uncategorized

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