L’ennesima “cosa” pre-elettorale di sinistra nasce all’insegna del cambiamento e dell’innovazione. Due termini che fanno ormai o sbadigliare o (piuttosto) rabbrividire. Per fortuna, c’è altro.
La “Rete” di sinistra (o di centrosinistra, come anche si lascia definire o meglio non definire), che è stata costituita nel convegno virtuale di sabato 12 dicembre, non è naturalmente l’esempio di una delle cose che forze antisistemiche potrebbero fare nel nuovo regime americanizzante definitivamente instaurato nel nostro paese per effetto della combinazione tra la miniaturizzazione del Parlamento e la vigente versione 2.0. del Porcellum, nota anche come Rosatellum. Non lo è già per la semplice ragione che non si tratta di forze antisistemiche, come lo sono invece in buona parte quelle che si sono andate raccogliendo in Gran Bretagna entro la cornice di “Momentum” e negli Stati Uniti intorno a candidature inaspettatamente vincenti per cariche locali o seggi congressuali di cui Ocasio-Cortez rappresenta il simbolo ‒ per tacere ovviamente della campagna nazionale di Bernie Sanders alcuni mesi fa.
L’idea fondamentale di questa seminuova operazione elettoralistica, a quanto si legge, toglie di mezzo la possibilità di qualunque paragone con quei casi. Si tratterebbe, cioè, niente meno che di stare al fianco di ogni candidato di centrosinistra nelle grandi città italiane in cui si voterà in primavera. Non si guarda insomma per il sottile, con commovente gratuità. Nessun problema, quindi, se dovesse trattarsi di entusiastici privatizzatori e devoti delle virtù predicate e praticate dall’Eurogruppo, dello stile di un Bonaccini. Laddove, appunto, il campo che nei paesi anglosassoni si definisce “progressive”, e include largamente punti di vista antisistemici, tende generalmente a sfidare i candidati proposti dagli apparati, e a sostituirli con propri candidati. Anche senza approvare quel genere di lotta politica come definitivamente giusto e sufficiente (come non sembra, tutto sommato, possibile), resta chiaro che questa forse pretesa versione italiana del “progressivism” si colloca nettamente a destra del suo possibile esempio anglosassone.
La definizione mediatica corrente di questa operazione la qualifica come “rosso-verde”, ossia orientata a promuovere insieme la giustizia ambientale e la giustizia sociale, riducendo (non si sa di quanto) le disuguaglianze. Si tratterebbe di “rispondere ai bisogni della maggioranza” (una tautologia aperta a un’assoluta indeterminatezza di contenuto) e di “non deludere l’aspirazione al cambiamento e all’innovazione”. “Cambiamento” e “innovazione” sono termini che designano forme di cose o di fatti, non cose o fatti. Le cose e i fatti corrispondenti all’uso recente che ne è stato fatto (anche da parte di molti tra i convenuti) hanno già nettamente quasi irrimediabilmente deluso e contraddetto le aspirazioni di moltissime persone, e specialmente di quelle che vivono del proprio lavoro (o vorrebbero soprattutto avere modo di farlo, in ogni caso dignitosamente): sugli effettivi destinatari della promessa di “non deludere”, perciò, è abbastanza normale interrogarsi.
Non c’è niente di strano in tutto questo. La natura del campo politico che si esprime in questa operazione è essenzialmente liberale, o liberalradicale. Sembra avere sviluppato un orrore della parola “socialismo” molto più equiparabile alla sua diffusione negli Stati Uniti degli anni Venti del secolo scorso che alla sua diffusione oggi nello stesso paese. Appare impermeabile alle sollecitazioni della crisi storica del liberalismo acutamente descritta da Immanuel Wallerstein alla fine del secolo scorso e pienamente rivelata dalla sfida della pestilenza globale del 2020. Resta largamente al di qua della temporanea riconsiderazione dell’idea liberale che interessò l’Occidente nell’età del New Deal, e in generale al di qua di ogni riconsiderazione del peso che necessità comuni possano avere nella determinazione e nella delimitazione delle libertà come il liberalismo stesso ha sempre largamente ammesso almeno nelle situazioni di guerra (ammesso che queste siano mai così spesso veramente comuni, oltreché necessità); a maggior ragione quindi, al di qua di quella più matura e più profonda ulteriore elaborazione dell’idea di libertà (nella sua relazione con quella di necessità) che l’incombente catastrofe climatica, e intanto la pestilenza, richiedono.
Al di qua anche di Benedetto Croce, dunque. Ostinatamente azionisti. I liberali siano dunque liberali, se lo vogliono, e se davvero del liberalismo intendono fare un’idea politica anziché filosofica, sempre bisognosa, come tutte le idee filosofiche, di dubbio e di chiarimento. E i socialisti, dunque, e meglio ancora i comunisti, li lascino fare. Ma facendo altre cose.
Raffaele D’Agata
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