La cupa e deterministica visione dell’inventore della geopolitica (e ispiratore del jingolismo) ispira Washington dal 1945, e il luccicante involucro dei “diritti umani” presenta troppi buchi per riuscire e coprire questo.
di Raffaele D’Agata
Il ritorno trionfale di Mrs. Victoria Nuland al Dipartimento di Stato di Washington accanto al già poco conciliante Antony Blinken dice molto circa il grado di compiacimento che varie altre ragioni possono indurre a nutrire per l’avvicendamento di potere che ha recentemente avuto luogo nella capitale dell’Impero. Mrs Nuland svolse alacremente compiti di primo piano nel quadro del sostegno fornito dall’amministrazione Obama al colpo di Stato fascisteggiante in Ucraina nel 2014. E, appunto, quel sostegno è tuttora da considerare come una delle più chiare manifestazioni del carattere ferreo e difficilmente alterabile del nucleo di assiomi geopolitici che motivano la Weltpolitik sostanzialmente bipartigiana praticata da Washington. Questo nucleo è riconoscibile nella teoria di Halford Mackinder, inventore del termine stesso “geopolitica” nel diciannovesimo secolo. Mackinder afferma la permanente ineluttabilità dello scontro tra “Isola mondiale” e “cuore della terraferma”. La prima era rappresentata allora, nella teoria, dalla Gran Bretagna e dal suo impero, e oggi naturalmente dal mondo euroatlantico che ruota intorno un nucleo anglosassone dal 1945. Il secondo era rappresentato allora dall’impero russo combattuto in un arco esteso da Sebastopoli a Kabul, è stato rappresentato poi dalle successive metamorfosi della formazione statuale a base russa, ed oggi lo è ancora di più (sostanzialmente) dalla potenziale saldatura tra la Russia odierna (comunque la si veda) e una Cina pienamente ritornata allo status potenzialmente egemone sul sistema-mondo che il prudente richiamo dell’ammiraglio Zheng He al di qua del Capo di Buona Speranza lasciò privo di sviluppo cinque secoli fa.
La politica estera del partito democratico nordamericano non si è mai molto distaccata da Mackinder (meno ancora di quanto abbia fatto lo stesso partito repubblicano della vecchia maniera, come lo stesso Eisenhower seppe mostrare nel 1956), almeno se si eccettua qualche ripensamento (duramente pagato, del resto) che John Kennedy sembrò nutrire nell’ultimo breve periodo della sua presidenza. Di fatto ne risulta ispirata molto più efficacemente che dal comunque ben intenzionato schiavista Jefferson, dallo stesso Wilson nei suoi primi tempi, e naturalmente (meno che mai) dal genio innovatore di Franklin Roosevelt.
L’intervista rilasciata da Biden solo un paio di settimane dopo il suo insediamento nel singolare conteso televisivo di un evento sportivo è altrettanto poco rassicurante. Per lui, infatti (e non per lui singolarmente, come è ovvio) la Cina resta cioè un avversario strategico permanente, nonché una “non democrazia”, così come quella Russia dove le complesse vicissitudini giudiziarie di un personaggio non limpido (e comunque caratterizzato da connessioni non più limpide di quelle del potere) sono assunte come ulteriore giustificazione di pressioni ostili e di costanti e intensi preparativi militari sulle rive del Baltico, esercitate entro il contorno di una plaudente fascisteria locale: essendo il tutto abbastanza fedelmente riprodotto da parte dell’Unione Europea.
Tanto più dovrebbe stupire l’insistenza di molti nel riferirsi all’ideologia suadente e benevolente della globalizzazione, e comunque nel trattarla come aspetto della realtà, così da distogliere più o meno consapevolmente lo sguardo da tutto questo e da ciò che ne consegue, sia per quanto riguarda la stretta connessione tra la presente forma del capitalismo e le politiche di potenza e di guerra, sia per quanto riguarda i riflessi di tale connessione (così come si è stabilita) sulle sue dinamiche strutturali, fissate nell’ultima parte del secolo scorso. Si pensi, specificamente, al prossimo sicuro scontro (di cui è facile prevedere l’esito) tra l’American Rescue Plan e la sempre rispettata e soddisfatta voracità del Pentagono, sul modello di ciò che accadde nel caso della Great Society al tempo di Lyndon Johnson. E a questo bisogna aggiungere il ruolo determinante oggi esercitato, in ogni programma pubblico, dalle istituzioni finanziarie private, che un guru del Sistema come Mario Draghi indica come necessari “vettori” di tali interventi, ben lontano cioè da ciò che furono cose come la Tennessee Valley Authority e la National Recovery Administration del vero New Deal (oggi tanto spesso citato a casaccio), o la stessa nostra Cassa per il Mezzogiorno, con tutti i ben noti limiti del suo effettivo funzionamento.
Resta, apparentemente luccicante, l’involucro costituito dalla crociata sui “diritti umani”. Strano luccichio. Ci si commuove per Navalny mentre Snowden languisce veramente in cella in una caparbia vendetta per aver sollevato una spessa quanto vitale coltre di menzogne. Si addita il silenzio della Cina su Myanmar mentre si tace su Haiti in aggiunta al silenzio e soprattutto alle menzogne che riguardano da sempre il celebre “cortile di casa”. Myanmar, del resto,può anche essere visto come il “cortile di casa” della Cina (se vogliamo temporaneamente maneggiare tali concetti), e si potrebbe anche domandarsi quale sarebbe l’atteggiamento di Washington se un’agguerrita flotta cinese incrociasse permanentemente in prossimità del Canale di Panama così come la Cina vede un’agguerrita flotta americana incrociare permanentemente nello Stretto di Malacca.
Resta da considerare che l’Impero del Bene è stato recentemente compatto, attraverso tutte le versioni delle sue gestioni politiche e ideologie politiche dominanti, nel rifiutare la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla messa al bando delle armi nucleari. Nuove varianti di queste risultano anzi in arrivo proprio da noi, che già ne ospitiamo più o meno legalmente un’infinita quantità, mentre le ingenti spese per gli F35 continuano ad essere evidentemente considerate “al di qua dei nostri mezzi”, e comunque continuano a dare argomento per sostenere che molte spese necessarie andrebbero invece “al di là”. Inutile dire che anche questo (insieme a molte altre cose, come per esempio il ruolo non soltanto italiano dei “necessari vettori” di Draghi) penda su sulla possibilità di qualunque sviluppo del “Recovery Plan” che non sia destinato a risolversi (a più o meno ma certamente non troppo lungo termine), in ulteriore debito: e di debito, in ultima istanza, sempre nei confronti di potenti e semifeudali signori privati.
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