La larghissima maggioranza parlamentare che sosterrà il governo Draghi può richiamare alla mente cose degli anni Settanta del secolo scorso. Ecco le enormi differenze, e ciò che comportano.
di Raffaele D’Agata
Apparentemente, la formazione del Governo Draghi rappresenta un vistoso paradosso, che tuttavia può essere spiegato, e può dire molte cose. Un ciclo di storia italiana, che era cominciato più o meno trenta anni fa con la critica del cosiddetto consociativismo e con il conseguente rimodellamento del nostro sistema politico in un senso alquanto forzatamente “bipartitico”, culmina adesso in un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare mai stata così ampia dai tempi dei governi di “unità nazionale” presieduti da Giulio Andreotti dal 1976 al 1979, nei quali l’idea berlingueriana di “compromesso storico”si trovò, per effetto di svariate circostanze, ad essere schiacciata, mutilata e snaturata (e tuttavia, di fatto identificata), fino ad essere (soprattutto per questa ragione) sconfitta.
Innanzitutto può essere utile una premessa. Le convergenze consociative, con i corrispondenti governi di Grande Coalizione, si presentano spesso associate in modo stretto con scosse abbastanza forti dell’equilibrio di sistema, e con connesse e oggettive esigenze di riassestamento modificato. Ma ne esistono versioni “forti” e versioni “deboli” (o di fatto indebolite, come fu appunto il caso in Italia allora). Così, per esempio, la Grande Coalizione che si formò in Germania nel 1966 ebbe la funzione di ridefinire in qualche modo la ragion d’essere della Repubblica di Bonn e la sua posizione nel contesto globale così da rendere possibile almeno un’evoluzione della guerra fredda che fosse meno traumatica di quanto temuto se non proprio la ricomposizione del conflitto senza puri e semplici vincitori che era nella visione originaria di Brandt e di Bahr, e di fatto non era destinata ad avere luogo; e si può qui già osservare come la Grande Coalizione che governa la Germania unita di oggi rappresenti appunto una versione debole, oltretutto messa in opera da due partiti molto ridimensionati (soprattutto uno) rispetto a ciò che allora rappresentavano. A sua volta, la convergenza tra i grandi partiti popolari italiani che ebbe luogo nel corso degli anni Settanta del secolo scorso (e non casualmente ebbe le sue manifestazioni temporaneamente più efficaci soprattutto e quasi soltanto su questioni di politica internazionale come lo sviluppo della distensione e i problemi del Mediterraneo e del Medio Oriente) corrispose all’esigenza di ridefinire concordemente, dai diversi punti di vista, i confini del legittimo e dell’ammissibile, del possibile e del necessario, nelle scelte politiche di fondo (ossia il consenso di base che, in ogni sistema politico, sta sicuramente al di qua del rischio di guerra civile).
In realtà, tali caratteristiche della Grande Coalizione italiana degli anni Settanta del Novecento furono presenti molto più nelle informali convergenze parlamentari che si svilupparono durante l’ultimo governo Moro (1974-1976), e molto meno (anzi, quasi per nulla) per effetto dei formali accordi che sostennero i governi Andreotti tra il 1976 e il 1979. In mezzo ci fu se non altro (ma bastava già) il Vertice di Rambouillet che, verso la fine del 1975, fissò definitivamente i contorni del possibile, del legittimo e del necessario, sulla base di determinati rapporti di forza e di volontà e in relazione (ovviamente) con le grandi alternative poste dalla crisi attraversata allora dall’ordine economico globale: e lo fece, appunto, in un senso diametralmente opposto a quello verso cui operavano personalità come quelle di Moro, di Berlinguer e di Brandt (in modo parallelo, ma compatibile e comunicante).
Messa a confronto con quel tempo, cioè con i dilemmi e i progetti che allora erano a tema, e con l’alto grado di drammaticità delle alternative allora vissute e percepite, la Grande Coalizione che attualmente si accinge a sostenere il Governo Draghi non è precisamente una ripetizione. Anche senza citare motti che suonerebbero piuttosto scontati e banali in questa situazione, può essere vista soltanto come una ripetizione in tono molto più modesto, ossia di contenuto molto più povero. Nessuna vera alternativa di sistema, paragonabile alle idee di nuovo ordine mondiale che circolavano allora non soltanto in ambienti radicali e marginali ma entro ampie sfere del personale politico ed economico dirigente (più o meno sensibile all’oggettivo peso di alternative allora reali nel conflitto di classe organizzato e nello stesso sistema internazionale) fa parte della discussione che intercorre tra il genere di partiti che la decadenza della democrazia italiana rende attualmente protagonisti visibili e finora determinanti nello spazio pubblico. Al contrario, la Grande Coalizione italiana del 2021 appare chiaramente corrispondere a imperativi di stabilizzazione sistemica, o per dire meglio al controllo di inevitabili cambiamenti più o meno durevoli e significativi nelle regole vigenti del sistema che siano fatti essenzialmente allo scopo che nulla cambi.
A Draghi, della cui statura intellettuale non si può certamente dubitare, qualunque cosa si possa e si debba dire della sua capacità o volontà di metterla a servizio di un’efficace indipendenza dal nocciolo delle convenzioni vigenti, si attribuiscono talvolta propositi riformatori come, in particolare, l’introduzione di qualcosa di simile a una fiscalità comune all’interno dell’Unione Europea. Si lasci per il momento da parte l’ovvia compatibilità di una tale idea con quella di una eventuale evoluzione dell’Unione stessa da semplice confederazione di Stati a vero e proprio Stato federale, e la valutazione dei possibili altrettanto eventuali effetti di ciò nella presente caotica situazione del sistema internazionale, certo non bisognosa di ulteriori fattori di sbilanciamento. Preme intanto, e innanzitutto, sottolineare che idee simili grattano appena la superficie del sistema vigente i cui fondamenti strutturali sono costituiti da un circuito denaro-cose-denaro piuttosto che cose-denaro-cose, che tende ad essere plasmato e condizionato da un semplice circuito denaro-denaro; e in conseguenti rapporti tra cose e bisogni, e tra bisogni e cose, lontanissimi da ogni equilibrio umanamente sensato. Restando la produzione di denaro (funzione pubblica per eccellenza) in mani fondamentalmente private, così come l’organizzazione del credito e la conseguente subordinazione di ogni funzione e scelta pubblica a interessi particolari forti, la sfida che oggi proviene dai devastanti effetti sociali della Grande Peste appare destinata a dare luogo a un crescendo di ulteriori devastazioni sociali allorché l’inevitabile incremento della massa globale del debito annunciata in prospettiva dalle ricette finora adottate, e lo strutturale e incontrastato predominio della sua gestione privatistica, presenteranno ai popoli il conto da pagare.
L’opposizione antisistemica trova in ciò ampie possibilità di rafforzarsi. Non meno, le sfide intellettuali e politiche da affrontare per costruire alternative reali si presentano straordinariamente difficili. Non essendo questa una ragione per sfuggirne.
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