Non è difficile dire che niente sarà come prima, ma se chi lo dice ha largamente contribuito a fare il prima, dovrebbe aspettarsi qualche domanda. E rispondere bene, in ogni senso.
di Raffaele D’Agata
Se nel frattempo non sarà accaduto niente di nuovo, in occasione delle elezioni che riguarderanno quasi tutte le più grandi città italiane dopo l’estate l’Italia sarà il primo paese dove il trumpismo prenderà la sua rivincita essendo per ora, se non dormiente, comunque allontanato dal potere negli Stati Uniti per i prossimi quattro anni. Mentre oggi si manifesta prevalentemente sotto forma di rivolta antisanitaria nel contesto della pestilenza globale, il trumpismo esprime, più in profondità, processi diffusi di metamorfosi di senso comune entro i ceti subalterni (e della subalternità stessa o della sua auto-percezione, non sempre riferibile a parametri di ordine reddituale) per effetto della stretta relazione esistente ormai da tempo tra partiti o generi di partito che un tempo rappresentavano quei ceti (e così facendo, tra l’altro, ne influenzavano la cultura) ed élites della ricchezza e del sapere, inteso come legato a una generica idea di progresso: per effetto, insomma del carattere puramente liberale assunto dal campo “progressista”. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il rinverdimento di concetti keynesiani e newdealisti da parte dell’amministrazione Biden può anche essere consolante, ma per consolare nei fatti essa dovrebbe non solo riuscire a superare l’ostacolo di un Congresso pieno di dubbi, ma anche quelli posti da sé stessa con la sua politica estera muscolare e con il conseguente tributo alla voracità del Pentagono, che per ora promettono molto più Johnson che Roosevelt.
L’esempio italiano è costituito naturalmente dal Partito Democratico, che più onestamente dovrebbe appunto chiamarsi liberale (e non certo laburista). Le clamorose dimissioni del suo leader, dopo l’oscena manovra di palazzo che ha portato all’insediamento di un governo sostanzialmente imposto dal Quirinale con il consenso attivo di settori apparentemente opposti dell’attuale Parlamento, sembrano troppo presto dimenticate. In effetti, nella scelta tra l’onore (residuo) e una durissima e poco promettente prova elettorale, la perdita del primo appare destinata semplicemente a rendere ancora più sfavorevole l’esito di quella che avrà luogo comunque presto in due tempi, distanziati tra loro di un anno oppure di due in funzione delle dimensioni del successo che il blocco trumpista appare destinato a riscuotere in autunno nelle città.
Il trumpismo, naturalmente, non è che un illusionistico camuffamento della struttura profonda della distribuzione della ricchezza e del potere nel capitalismo contemporaneo, con la sola differenza che, mentre i suoi leader e i suoi seguaci ne coprono di contumelie le manifestazioni simboliche, offrendo gratificazioni altrettanto simboliche a diffuse percezioni di subalternità (talvolta, se conviene), il progressismo liberale onora questi simboli e prende alla lettera le narrazioni che li riguardano presentandole come destinate a rivelarsi miracolosamente efficaci. È specialmente questo il caso per quanto riguarda ciò che riceve l’anacronistica denominazione di europeismo come se il “modo di vita europeo” di un tempo fosse sopravvissuto ai colpi inferti da Maastricht e potesse essere resuscitato senza abbattere Maastricht. È anche il caso di ciò che prende il nome di atlantismo, come se la NATO fosse ancora da considerare tutto sommato elemento di un equilibrio e non fattore di caos e ostacolo insuperabile sulla via di ogni progresso verso la sicurezza collettiva; e come se la comprensione e la cura professata a parole verso l’agonia del popolo migrante potesse coesistere, e suonare credibile nella costruzione di un non facile consenso, con il riconoscimento di una “comunità di valori” entro un blocco di potenza militare le cui attività criminali sono causa di fuga disperata dai luoghi in cui si sono svolte.
All’interno del blocco liberale progressista, o almeno all’interno dei suoi settori più critici, non sembra oggi assente una certa consapevolezza della necessità di fare o di proporre qualcosa di diverso di fonte alle conseguenze economiche e sociali della pestilenza globale, e dopo la pessima prova data dal nostro attuale sistema sociale e dal nostro apparato pubblico, configurato da politiche già teorizzate e promosse anche e specialmente al suo interno, di fronte ad essa. Il mantra “niente sarà come prima” è facile da pronunciare. Difficilmente però l’enunciato potrà infine essere riferito a molto più che tappezzeria di finestre se presupposti come questi continueranno ad essere intoccabili; e se continuerà ad esserlo con essi il principio dell’intermediazione finanziaria privata come principale vettore (parole di Draghi) dell’azione economica della mano pubblica, nonché la sacralità del debito pubblico anche se originato da sleale sostituzione di imposte.
In conclusione non è difficile dire che niente sarà come prima, ma se chi lo dice ha largamente contribuito a fare il prima, dovrebbe aspettarsi qualche domanda. E rispondere bene, in ogni senso.
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