Oggi tutti coloro che si sentono almeno infastiditi dal rumore di stivali, dal rombo di reattori e dalle roboanti chiacchere che opprimono il clima della casa comune europea dovrebbero forse riferirsi al modello della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa
di Raffaele D’Agata
Le crescenti tensioni tra le potenze, nel cui quadro si colloca l’ambiziosa missione europea di Joe Biden cominciata questo 10 giugno, sono spesso narrate come una “seconda guerra fredda”. Ciò può essere molto fuorviante, perché comporta tanto idee imprecise su ciò che la guerra fredda effettivamente fu quanto grossa difficoltà di cogliere il senso delle tensioni in atto.
La guerra fredda, nel secolo scorso, ebbe come motivo essenziale la salvaguardia e il rilancio (infine, e finora, riuscito) di aspetti essenziali del capitalismo di fronte al rischio di una loro progressiva erosione, e conseguente metamorfosi, per effetto dell’influenza globale esercitata dai reali risultati della rivoluzione sovietica alla fine della seconda guerra mondiale (dato il ruolo decisivo che questi ebbero nella fondazione di un ordine mondiale relativamente stabile e soprattutto diverso da quello che i fascismi miravano a stabilire). Un linguaggio retorico imperniato su termini più o meno correttamente definiti come democrazia e totalitarismo serviva semplicemente a rivestire questo nocciolo con una narrazione più semplice e popolare, per quanto incoerente. Se ne ebbe dimostrazione proprio dai primi anni Novanta del secolo scorso in poi, quando da una parte l’adozione di un sistema istituzionale formalmente liberale nel principale Stato successore della dissolta Unione Sovietica non comportò alcun vero alleggerimento della pressione di contenimento esercitata dal blocco militare atlantico nei suoi confronti e comportò piuttosto una sua estensione e un suo progressivo rafforzamento; mentre, da un’altra parte, qualche segno di rilassamento della contrapposizione fu osservabile semmai proprio quando l’effettivo potere di Boris El’cin e della sua corte di cleptocrati si consolidava mediante un sanguinoso colpo di Stato al quale l’Occidente assistette con notevole flemma. Qualunque cosa si possa e si debba discutere e criticare della presente interpretazione delle forme politiche liberaldemocratiche da parte del potere di Vladimir Putin, non c’è nulla che non renda paradossale e stridente il confronto tra quella flemma e l’attenzione dedicata oggi alle disavventure giudiziarie di questo o quel più o meno discutibile attore entro lo spazio pubblico russo negli ultimi anni.
In ogni caso, poi, una differenza fondamentale è che la russofobia e la connessa sinofobia promosse ed esercitate attualmente da parte del campo che si autodefinisce democratico non riguardano minimamente le sorti del capitalismo, che in questa prima parte del nostro secolo non appare esposto a sfide globali di qualche rilevanza, non essendo minacciato veramente da altro che da sé stesso (come sempre), salvo come sempre tendere ad esternalizzare la minaccia con tutte le relative ricadute sulla generalità degli esseri umani.
Piuttosto, per comparare storicamente in modo appropriato la contrapposizione circa la quale siamo oggi costantemente sollecitati a schierarci, conviene riferirsi alle tensioni che caratterizzarono la crisi e il dissolvimento della Prima Globalizzazione all’inizio del Novecento, anche se non si tratta di schemi semplicemente sovrapponibili (se mai ce ne siano) a causa della molto più articolata complessità del sistema internazionale di oggi. Cinofobia e russofobia riproducono oggi aspetti distinti della faglia che generò il tremendo collasso del 1914, e delle altre che si aprirono per conseguenza più o meno diretta nei due successivi decenni.
Per quanto riguarda l’attuale confronto tra Stati Uniti e Cina, si può anche riconoscerlo come il culmine di una storia che, dall’alleanza di fatto stabilita alla fine degli anni Settanta del Novecento, passa per la flemmatica presa d’atto dei fatti di Tienanmen e quindi per l’apparente periodo d’oro della Seconda Globalizzazione tra 1990 e 2008, mentre adesso sembra riprodurre lo schema della rottura della compatibilità funzionale tra la Ruhr e la City che sorresse abbastanza lungamente i cosiddetti fasti della Belle Époque. La russofobia statunitense (ma non per caso ben più verbosamente e attivamente euro-occidentale e mitteleuropea) presenta aspetti ideologici in qualche modo più rilevanti se non preminenti (specialmente dal lato “europeo”). E, connessi con questi, presenta anche rilevanti aspetti geopolitici, equiparabili agli irredentismi e ai nazionalismi che alimentarono la catastrofe della prima guerra mondiale e l’intrattabilità della situazione immediatamente successiva.
Il panorama geopolitico dell’Europa del tempo presente, intesa nella sua più densa eppure estesa identità storica e culturale anziché nell’accezione ristretta e scissa che la identifica con l’Unione di Maastricht e con i suoi successivi “allargamenti”, rappresenta la solidificazione non completata (e piuttosto difficile a completarsi in assenza di significativi processi alternativi) del magma imperversante soprattutto durante gli anni tra il 1990 e il 1992, ed è caratterizzato da rilevanti deficit di legittimità (certamente, sempre alquanto relativa in questo campo). Tale deficit (per quanto sia impegnativo e difficile ammettere ciò, e certamente mai senza la sempre necessaria prudenza pratica) riguarda innanzitutto proprio lo spazio ex-sovietico, la cui dissoluzione come realtà federale non si associò in alcuna misura con rilevanti moti popolari se non in alcune aree marginali, e si verificò innanzitutto come il risultato di decisioni prese da tre persone quasi in segreto e sopra la testa di un pronunciamento popolare di segno diverso che pure vi era stato in tutta l’Unione. Con la sola eccezione della separazione relativamente tranquilla e consensuale tra Cechi e Slovacchi, le altre revisioni territoriali avvenute in Europa fino al 1999 (e formalmente fino al 2008 quanto ai Balcani) sono associate con atroci violenze interetniche risvegliate da processi viziati, azioni ciniche, e omissioni opportunistiche e ignave.
Di fronte a tutto questo, la benigna e condiscendente trasformazione della Conferenza per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa in organizzazione permanente (OSCE), proprio nel pieno delle guerre jugoslave trattate fin dall’inizio in modo diametralmente opposto a quanto sancito dall’Atto finale di Helsinki che ne era stato il faticoso e benefico prodotto un ventennio prima, fu naturalmente la quasi sarcastica contropartita del suo confinamento nel museo delle nobili irrilevanze. Essendo incompatibile con la NATO – data appunto l’incompatibilità di questa con il principio della sicurezza collettiva – a questa doveva ovviamente cedere. Prima del 1966 (e della svolta impressa alle dinamiche della guerra fredda in Occidente per opera di Willy Brandt) la convocazione delle sue prime faticose sessioni era stata il frutto di lunghi anni di tenaci sforzi. Oggi tutti coloro che si sentono almeno infastiditi dal rumore di stivali, dal rombo di reattori e dalle solenni chiacchere che opprimono il clima della casa comune europea dovrebbero forse riferirsi a quel precedente e a quel modello.
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