Dipende dalle parabole dei frammenti eterogenei della bolla pentastellata e in particolare da quanto della carica generosamente e fondatamente indignata degli inizi si sentirà coinvolta nello sforzo di rappresentanza e auto-rappresentanza organizzata degli sfruttati che cresce nel Paese.
Quante probabilità ci sono adesso che l’ampia consultazione elettorale riguardante quasi tutte le più popolose metropoli italiane il settembre prossimo riproduca il fenomeno di massiccia assenza della urne osservato nelle recenti elezioni regionali francesi? Cominciamo innanzitutto ragionando sul caso francese, per passare poi alle analogie e alle differenze che ci riguardano.
Quanto alla Francia, è certo in generale che una democrazia rappresentativa cui soltanto un terzo delle cittadine e dei cittadini trovino motivo di partecipare è una democrazia come minimo in grave crisi, se mai si possa definire ancora una democrazia. Qui non si può certo presumere di fare affermazioni fondate circa le percezioni e i precisi motivi delle francesi e dei francesi che non vanno a votare, né su quanto vi sia in loro di più o meno diretta coscienza e memoria delle vicende politiche del loro paese dalla seconda metà del secolo scorso in poi. È comunque certo che la crisi della democrazia francese ha una storia molto lunga, cominciata nel 1953 con l’abbandono precoce e anticomunista del sistema elettorale proporzionale, proseguita con la rivincita colonialista perseguita in quello stesso decennio con fortune inizialmente scarse ma con apprezzabile ferocia in Indocina, in Algeria e a Suez, e realizzata obliquamente e con destrezza nei successivi decenni dopo il semi-colpo di Stato del 1958 e la nascita della Quinta Repubblica: sogno e sospiro a lungo di tanti nostri reazionari, finalmente compiuto in modo sostanziale grazie ai referendum Segni e alle successive apparentemente ed abilmente minori manipolazioni della Carta.
Ed eccoci a noi. L’inizialmente gigantesca bolla rappresentata dal movimento grillino fu la prima immediata reazione di una democrazia ancora abituata (tutto sommato) ad essere tale di fronte ai colpi in parte ricevuti e in parte stolidamente auto-inflitti che avevano portato tanto alla devastazione morale e civile berlusconiana quanto alla strumentalizzazione della resistenza nei suoi confronti, al suo costante e sostanziale svuotamento, e al suo finale tradimento rappresentato dal governo commissariale Napolitano-Monti all’inizio degli anni Dieci. Le elezioni del 2018 sono state il culmine della bolla, ma anche l’inizio della rivelazione del vuoto che essa conteneva. Preoccupati piuttosto di tenere stretta nelle loro mani l’eterogenea e contraddittoria massa di consensi che li aveva sospinti così in alto che di perseguire una visione di vera e sostanziale riscossa della democrazia (non avendone appunto una, quando pure non fossero invece portatori di una opposta), si allearono inizialmente con la demagogia reazionaria del Salvini avallando e sostenendo la sua politica di guerra internazionale tra poveri in cambio di un confuso e contraddittorio (per quanto oggettivamente benvenuto) “reddito di cittadinanza”, per poi accogliere la proposta di governo proveniente dai residui del centro-sinistra di fronte all’evidente stato di subalternità in cui l’abbraccio con costui li aveva cacciati. Ma anche in tale nuovo rapporto si trovarono a cedere praticamente su tutto abbandonando battaglie che erano state a loro modo quasi qualificanti (dall’appoggio alla resistenza della Valsusa alla critica dell’europeismo ufficiale e dello stesso atlantismo) in cambio della soddisfazione ai loro peggiori istinti mediante il taglio della rappresentanza parlamentare, concessa dal PD con ostentato malumore e sostanziale gradimento.
Tale essendo la situazione, parte notevole della risposta alla domanda che abbiamo formulato quanto alle prossime parziali ma importanti elezioni in Italia appare dipendere da quanto dei frammenti della bolla pentastellata andranno a cadere in un’area dove le reazioni prevalenti siano di irritato rifiuto d’ogni cosa, come è possibile che accada. Il resto di ogni ragionevole previsione sembra doversi dividere da un lato circa quanto della carica di più o meno esplicita antidemocrazia contenuta o comunque confluita nella bolla iniziale si sentirà a suo agio con le Meloni e i Salvini e dall’altro circa quanto della carica generosamente e fondatamente indignata degli inizi si sentirà coinvolta nello sforzo di rappresentanza e auto-rappresentanza organizzata che a settembre sarà riconoscibile in candidate, candidati e liste che (come inizialmente nella protesta grillina, ma questa volta senza equivoci circa la parte da cui stare e la storia di liberazione in cui riconoscersi) si distingua senza alcun equivoco dall’intero arco incostituzionale e da qualunque patito retaggio come da qualunque echeggiante canto di sirene comunque legati alla disastrosa epopea del centro-sinistra.
Certo, le macerie del recente passato sono grandi e pesanti. Non c’è spazio per illusioni: quindi, tuttavia (e su ciò il discorso sarebbe lungo, ma non da fare adesso e non qui), neanche per rigide (apparenti) scorciatoie. Certo, comunque, non per rinunce o abdicazioni.
Raffaele D’Agata
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