Se la Restaurazione del nostro tempo si sfalda da sé in un caos disperato, e non sotto la spinta di un’ondata rivoluzionaria, non è solo per la straordinaria miseria del suo pensiero e del suo progetto, ma anche per insufficienza del pensiero antagonista.
Poco prima che Marx nascesse, e durante la sua prima formazione, la generazione di coloro che lo precedettero nel pensare e servire la lotta per la fraternità e l’eguaglianza (per tutti, Filippo Buonarroti) non ebbe mai dubbi nel giudicare il crollo del sistema statuale impersonato da Napoleone Primo una tremenda sciagura: per quanto avesse resistito e lottato contro la sua forma di potere, e per quanta persecuzione avesse affrontato di conseguenza. Questo chiaro giudizio rendeva coerente e feconda di sviluppi la sua opera tenace, come elemento che concorreva a preparare il generale sussulto di liberazione che percorse l’Europa nel 1848. Non altrettanto diffusa, né altrettanto chiara, è la consapevolezza che proprio una Restaurazione è ciò che ha dato segno e senso al tempo che abbiamo recentemente vissuto dagli anni Novanta del secolo scorso, e che la sconfitta dell’Unione Sovietica nella guerra fredda e la sua conseguente dissoluzione hanno costituito una sciagura non soltanto analoga ma di gran lunga peggiore.
La Restaurazione del ventunesimo secolo è infatti una bruttissima copia di quella più famosa di due secoli addietro. Il grado di intelligenza politica dei suoi artefici è stato incomparabilmente più basso, specialmente se si considera l’abilità mostrata dai vincitori di allora nell’impossessarsi di molte acquisizioni del venticinquennio rivoluzionario (e della sua involuzione stabilizzatrice sotto segno napoleonico) che apparissero conformi ai loro intendimenti. La rabbia distruttiva degli apparenti trionfatori nel biennio 1989-91 presenta invece, agli occhi dello storico, aspetti di vero e proprio fanatismo, che si è poi anche manifestato come cieco delirio di onnipotenza oltre ogni minimo o anche ragionevolmente cinico limite nel violare norme di rispetto per la verità e per la fede pubblica. Se oggi questa Restaurazione si conclude, o peggio si sfalda nel caos, non sotto la spinta di un’ondata rivoluzionaria, ma nell’orrendo spettacolo di una storica disfatta militare per opera di forze ancora più oscure e retrive, e della fuga disordinata di immense moltitudini senza guida e senza speranza, ciò si deve non soltanto all’iniziale miseria intellettuale del suo progetto, ma in parte significativa anche alla scarsa chiarezza di cosciente memoria degli eventi, e di conseguente capacità progettuale, entro il campo di coloro cui spettava il compito di fronteggiarla e di preparare ed aprire nuove vie di rivoluzione.
Durante questo agosto, la tragedia (finora) finale dell’Afghanistan chiama in causa la memoria sia per quanto riguarda il ruolo che fu svolto dall’Unione Sovietica all’inizio delle violente convulsioni che ebbero quella terra sfortunata come epicentro quattro decenni addietro, sia per l’occasionale coincidenza con il ricordo di un altro più lontano agosto: quello del 1968, quando le forze militari del Patto di Varsavia stroncarono in Cecoslovacchia un tentativo, più o meno credibile ma certamente generoso, di nuova e più felice composizione tra eguaglianza e libertà. La combinazione di queste rievocazioni mostra, più spesso del dovuto, una infausta tendenza a mettere quasi in secondo piano i misfatti della Restaurazione rispetto ai precedenti peccati sia della rivoluzione sia specialmente delle strutture consolidate e congelate entro cui il suo complesso procedere si era arroccato e costosamente fortificato nel corso del Novecento.
Peccati veniali, a confronto dei delitti di cui la Restaurazione è chiamata oggi a rispondere, e deve essere chiamata a farlo. Per quanto la passione di verità e di libertà possa manifestare la sua purezza nel fare di picciol fallo amaro morso, l’indagine storica come terapia razionale della memoria può venire in soccorso nell’evitare che la lotta contro il male sociale, e perciò contro la classe che lo rappresenta e lo produce, sia indebolita da non chiarito senso di colpa. E l’indagine storica può chiarire alcune cose tanto importati quanto raramente considerate in relazione con quegli eventi passati.
L’indagine storica può chiarire che la guerra civile afghana scoppiò alla fine degli anni Settanta del secolo scorso già come conflitto internazionale alimentato da fiumi di denaro e di droga riversati dall’alleanza americano-pakistano-saudita. Può chiarire che l’intervento sovietico al fianco di un regime non molto amato né apprezzato da Mosca, in tale contesto internazionalizzato, fu una decisione che vide il gruppo dirigente del Cremlino praticamente spaccato, e che l’argomento decisivo fu costituito esplicitamente dal timore di vedere un alleato trasformarsi in nemico (anche e soprattutto per opera dell’avversario principale) come ricompensa per la prudenza e il distacco nei suoi confronti, esattamente come era accaduto nel caso dell’Egitto di Sadat tra il 1972 e il 1973. E può chiarire che lo stesso ritiro sovietico dal paese alla fine degli anni Ottanta fu relativamente ordinato, tanto che il governo laico e relativamente decente di Kabul seppe ancora difendersi da solo per tre anni prima di essere tradito da accordi internazionali stracciati che favorirono l’avvento delle tenebre islamiste nel paese.
L’indagine storica può anche chiarire come l’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia fu veramente più un intervento del Patto di Varsavia (per una volta!) che dell’Unione Sovietica come tale, il cui gruppo dirigente di allora era fortemente pressato da alleati gelosi e inquieti oltreché diviso (anche su ciò e anche allora) al proprio interno. Può chiarire come Willy Brandt annoverasse allora l’ambiguità del governo d Grande Coalizione (di cui allora faceva parte come ministro degli Esteri di Bonn), tanto in tema di riconoscimento delle frontiere europee quanto in tema di rinuncia ad ogni forma di rango nucleare, come uno dei fattori determinati nel provocare le tensioni sfociate nel dramma cecoslovacco. E può chiarire come anche per questo quel grande leader socialista abbia poi provocato la crisi della Grande Coalizione, e le elezioni anticipate che lo portarono alla guida del governo e alla breve ma densa stagione di accordi ‒ culminati nell’Atto finale di Helsinki del 1975 ‒ che allontanarono ulteriormente lo spettro della guerra dall’Europa almeno fino al suo atroce ritorno tra noi nel biennio maledetto, con il concorso determinante di Genscher e di Wojtyla.
Ed è proprio il modello di Helsinki, e il connesso ideale della sicurezza collettiva, che possono offrire oggi gli strumenti intellettuali per pensare un’alternativa all’ordine crollato della Restaurazione che sia diversa da ulteriori e crescenti tempeste di fuoco, di tenebre, di sangue e di disperazione. Quel modello che dall’Europa avrebbe dovuto estendersi al Medio Oriente e al resto del mondo (era l’idea, duramente pagata, di Moro), e che (solo provvisoriamente compatibile con l’esistenza di distinti ed esclusivi sistemi di alleanza militare) era diventato assolutamente incompatibile con questi in relazione con i processi avviati alla fine degli anni Ottanta. Non avere insistito su questo fu l’imperdonabile errore (per usare un termine blando) commesso da Gorbaciov nel 1990. Ed avere brutalmente insistito sull’opposto fu l’atto di prepotenza compiuto da quanti vollero essere (e si illusero di essere) vincitori assoluti piuttosto che parti di una composizione.
L’uscita dalla NATO (accompagnata naturalmente dall’adesione alla proibizione delle armi nucleari approvata dall’Assemblea generale dell’ONU ma non dal nostro governo) diventa dunque un tema attuale e urgente, non un semplice desiderio. Il bilancio della sua sopravvivenza oltre l’equilibrio internazionale passato di cui era elemento, e la sua trasformazione in strumento di una pretesa imperiale e di oscuri calcoli (come in Libia) è un bilancio di solo sangue e di sole lacrime, ormai sotto gli occhi di tutti.
Raffaele D’Agata
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