Se gli accordi di Minsk fossero attuati, il Donbass sarebbe semplicemente un altro Alto Adige, con la sola differenza che a ridosso del Brennero non esistono apparati o patti militari basati su pregiudiziale ostilità.
di Raffaele D’Agata
È la Russia odierna una potenza revisionista nei confronti di un assetto territoriale stabilito come lo era la Germania dopo il 1919, così che il suo contenimento debba essere riconosciuto come necessario ai fini della salvaguardia della pace? La premessa è in parte vera, ma solo in parte. La conseguenza contiene un vero e proprio grappolo di falsità e di insensatezze.
Per quanto riguarda il grado di coincidenza tra i due casi, bisogna precisare che lo smembramento dell’Unione (sovietica o anche ormai, al limite, non più così chiamata, ma Unione comunque) non fu il risultato di un trattato imposto, come del resto non fu l’effetto di una qualche spinta dal basso di popoli desiderosi d’indipendenza (eccettuati i casi dei paesi baltici e, in vari modi e sensi, dello scenario caucasico). Fu semplicemente l’effetto di una decisione presa in gran segreto da tre personaggi in una località isolata, ciascuno in rappresentanza di ceti cleptocratici che trovavano più conveniente agire in ordine sparso nei rapporti con le opportunità offerte e i vincoli imposti dalla finanza globale, e ciascuno beffandosi di un’indicazione del tutto opposta data dai popoli dell’Unione in una consultazione referendaria svolta poco tempo prima. Una certa analogia può essere trovata, quanto a ciò, nel voto favorevole alla fusione con la Repubblica tedesca formulato dall’assemblea nazionale austriaca appena eletta, proprio nel 1919, e reso nullo dal Trattato di Versailles e dal Trattato di St. Germain. E bisogna proprio aggiungere, su questo, che quel veto cadde di fatto nel 1938 proprio quando l’adesione (Anschluss) ebbe luogo non entro una repubblica tedesca democratica ma entro lo Stato nazista, che in quella congiuntura era ancora considerato un interlocutore molto valido e molto utile da un’influente e determinante élite transnazionale.
Quanto al grappolo di falsità contenuto nella conseguenza, conviene innanzitutto chiarire che questa si basa sul presupposto che nel sistema internazionale stabilito dai trattati conclusivi della prima guerra mondiale, inclusi i suoi aspetti territoriali, ci fosse qualcosa che meritasse di essere difeso. Ciò era decisamente negato, a quel tempo, da personalità tutt’altro che estremiste o esagitate come John Maynard Keynes e Francesco Saverio Nitti, per non fare che due esempi illustri, con valide ragioni destinate poi ad essere largamente riconosciute dalla storiografia nell’epoca culturalmente democratica che è ormai purtroppo alle nostre spalle.
Sebbene soltanto pochi atti formali di diritto internazionale siano alla base del sistema internazionale che si è solidificato dopo la frana generale del 1990-91 (ossia, nulla di equiparabile al sistema di trattati di cui quello di Versailles fu il capofila dopo la prima guerra mondiale, e meno che mai qualcosa di equiparabile agli Atti del Congresso di Vienna, o al sistema costituito dagli accordi di Jalta e di Potsdam), è lecito e utile confrontare i ben più caotici e incoerenti sviluppi del biennio 1990-91 con ciascuno di quei tre precedenti. E dalla comparazione risulta che il sistema internazionale uscito dagli sconvolgimenti del 1990-91 somiglia molto a quello che prende il nome da Versailles, in termini di irrazionalità e di instabilità.
La vittoria dell’Occidente nella guerra fredda, ‒ se così vogliamo chiamare ciò che è accaduto trent’anni fa ‒ non ebbe cioè nulla della sia pure cinica saggezza mostrata dai vincitori a Vienna nel 1815, i quali oltretutto (ed è questo forse l’aspetto più sostanziale) non avevano alcuna intenzione di gettare via per principio tutto quanto di utile e di sensato, anche ai loro occhi, era accaduto in Francia e in Europa dal 1789 in poi. Si trattò cioè in quel caso di una restaurazione fino a un certo punto, mentre la Restaurazione di cui viviamo attualmente gli effetti somiglia molto a quella che Joseph de Maistre e altri ultrareazionari come lui avrebbero voluto a quel tempo, e soprattutto somiglia alla sostanza globale del sistema di Versailles: sia per quanto riguarda il rapporto con il vinto come prosecuzione della guerra con altri mezzi piuttosto che come reale riconciliazione, sia specialmente per quanto riguarda l’assoluto dominio concesso all’aristocrazia del tempo di Versailles (e di quello presente), ossia alle élites finanziarie globali. Non a caso, una crisi economica globale molto simile a quella del 1929 ha avuto luogo entro il sistema presente, e i suoi effetti sono ancora in atto.
Anche in tale quadro, appare comunque arbitrario giudicare che la comprensibile insoddisfazione di Mosca per quanto accade da un decennio in Ucraina (incluso un colpo di Stato favorito dalle potenze occidentali e un orientamento pregiudizialmente ostile dei suoi successivi governi) implichi un proposito di revisione territoriale tale da mettere in questione il fatto compiuto dell’esistenza dell’Ucraina come Stato indipendente. Quanto alla sua integrità territoriale, le dispute giuridiche (o rivestite di forma giuridica) circa il possibile riconoscimento legale dei risultati del referendum del 2014 in Crimea, e della successiva adesione di quella regione alla Federazione russa (specificamente, il suo confronto con casi ben più gravi e meno limpidi come quello del Kosovo) sembrano sorvolare in modo sorprendente sul contesto costituito dalla situazione di diffusa illegalità e di attiva ingerenza esterna regnante in Ucraina dopo il golpe di Maidan, e su episodi di atroce violenza fascista collegati con questa, come il rogo e la strage della Casa dei Sindacati di Odessa, che chiaramente potevano motivare e giustificare impulsi di pacifica autodifesa. Premesso questo, si tratta di stabilire se la mancata attuazione di una soluzione ragionevole della crisi ucraina come quella prevista dagli accordi di Minsk sia dovuta a revisionismo ed espansionismo territoriale da attribuire alla Russia, oppure ad altro.
In effetti, l’attuazione degli accordi di Minsk significherebbe semplicemente che un visitatore distratto delle regioni del Doneck e di Lugansk non saprebbe bene se trovarsi in Russia oppure in Ucraina esattamente come un visitatore distratto della Provincia autonoma di Bolzano non saprebbe bene se trovarsi in Italia oppure in Austria. Una differenza decisiva sta però nel fatto che in questo secondo caso nessuno dei due paesi confinanti fa parte di un’alleanza pregiudizialmente ostile all’altro, sicché se ne può concludere che il problema è tutto qui. Il problema, cioè, è la NATO. Di cui da trent’anni non si comprende bene la funzione in Europa (a parte, appunto, la Serbia nel 1999), mentre da altrettanto tempo si comprende fin troppo la sua funzione altrove.
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