In cerca di una legge

L’attuale assetto geopolitico paneuropeo è in  gran parte, tuttora, una situazione di fatto. Le mosse di Putin non aggiungono niente a questa situazione ma nemmeno contribuiscono a uscirne. Certo, comunque vi sollecitano.

Raffaele D’Agata

Gli attuali eventi in Europa Orientale possono essere compresi e interpretati come intense manifestazioni dello sciame sismico ininterrottamente seguito al terremoto geopolitico del 1990-91, ossia al crollo del sistema europeo di Jalta-Potsdam (1945) stabilizzato e tendenzialmente corretto dall’Atto di Helsinki (1975). Particolarmente, in tale contesto, conviene ora notare come la formazione dell’attuale Ucraina come Stato sovrano risultò dalla complessa catena di eventi che produssero la dissoluzione dell’Unione Sovietica, uno dei cui aspetti generali fu (tutto sommato), un grado basso e quasi nullo di mobilitazione e di protagonismo popolare (con eccezioni anche drammatiche solo nelle aree baltiche e caucasiche, e limitatamente, al centro, non prima e non più che in relazione con l’infelice tentativo di colpo di Stato “conservatore” nell’agosto 1991).

L’ultimo e decisivo tra questi eventi fu l’incontro semi-clandestino di Belaja Veza, nel cuore di una foresta, l’8 dicembre 1991, tra il presidente della Repubblica russa Boris El’cin, il presidente d ella Repubblica bielorussa Stanislau Suskevič, e il presidente del parlamento ucraino Leonid Kravčuk, al termine del quale il primo di questi annunciò e decretò che l’Unione Sovietica aveva cessato di esistere. Gli episodi precedenti, andando all’indietro, erano stati il referendum tenuto in Ucraina esattamente una settimana prima a conferma della dichiarazione d’indipendenza emessa dal parlamento di Kiev il 24 agosto (non casualmente, cioè, durante il tentativo di colpo di Stato a Mosca),che a sua volta contraddiceva in modo stridente (e limitatamente legale) il responso ampiamente favorevole al mantenimento dell’Unione dato dagli elettori anche in Ucraina nell’apposito referendum indetto da Gorbačev e tenuto pochi mesi prima, il 18 marzo.

Tanto la Dichiarazione del 24 agosto quanto il patto segreto di Belaja Veza furono manifestazioni dell’iniziativa determinante del gruppo sociale più attivo nell’abbattimento dell’Unione sovietica, cioè il ceto gestionale dell’economia di Stato che mediante vari trucchi, e profittando di riforme affrettate e confuse, aveva trasformato in titoli di proprietà negoziabili su tutti i mercati non solo nazionali (nei modi più diversi e anche tra i meno rispettabili) le funzioni esercitate. Il termine “cleptocrazia”, coniato dagli studiosi occidentali più seri e più liberi dall’ossequio al potere, esprime bene il genere di regime sociale che si andava così delineando.

Fu l’emergente e trasformistico personale politico omogeneo a questo ceto che accettò la resa incondizionata imposta dall’Occidente in luogo della pace negoziata più o meno maldestramente comunque offerta da Gorbačev in relazione a ciò che era stata la guerra fredda, nella sua ultima e decisiva battaglia che si andava svolgendo sul fondamentale e determinante terreno della geoeconomia. Le idee confuse quando non conniventi degli intellettuali e dei tecnici della perestrojka fecero in ciò la loro parte, ma la ferma intenzione almeno americana, e comunque subita dagli alleati, di imporre una resa incondizionata su tale terreno, fu decisiva. Tale scelta si manifestò essenzialmente nell’umiliante chiusura per i sovietici della porta del Fondo Monetario Internazionale (spalancata invece non solo per la Cina ma anche per la Polonia di Jaruzelslki come premio di diligenti “compiti a casa”), e nell’uso di una breve ma gigantesca guerra internazionale scatenata per rimettere in trono una pittoresca dinastia di nababbi e per rastrellare verso i Treasury Bonds di una superpotenza sempre più indebitata a scrocco, e verso il suo ciclopico apparato industriale-militare, ingenti risorse così sottratte a riforme multilaterali dell’economia mondiale (e perciò anche di quella già sovietica).

Il golpe di Maidan, nel 2014, fu un episodio delle guerre di mafia tra diverse cordate di clepocrati a Kiev, aggravato dall’appoggio fornito stolidamente ma interessatamente da USA ed UE ad una di queste, nonché dal ruolo determinante (tacitamente accettato da entrambi) di bande neonaziste, in un clima caratterizzato dal divieto e dalla repressione di grandi manifestazioni popolari per il Primo Maggio culminato nel rogo e nella strage di lavoratori nella Casa dei Sindacati di Odessa. La secessione della Crimea e lo schiacciante risultato del successivo referendum per il ritorno alla Russia sarebbero incomprensibili senza fare riferimento a ciò, così come la secessione delle regioni del Donbass che dopo anni di vana ricerca di soluzioni concordate di tipo autonomistico (sistematicamente boicottate da Kiev e dall’Occidente, e per altro incompatibili con la forte connotazione fascisteggiante del presente regime ucraino) sfocia adesso nel riconoscimento della loro indipendenza da parte di Mosca.

Questa ultima mossa di Putin, naturalmente, si presenta più che ambigua. Non tanto, diremmo, nella sua sostanza, giacché l’infittirsi delle bombe sempre sostituite all’attuazione degli accordi da parte di Kiev restringeva fortemente i margini della pazienza e dell’attesa, per quanto auspicabili; bensì, essenzialmente, nel suo dichiarato contesto motivazionale, che sembra segnare una svolta nel complesso equilibrio del blocco storico putiniano piuttosto a favore degli ideologi slavofili e rossobruni alla Dugin che a favore di quanto comunque resti dell’eredità sovietica e di quanto in ciò possa incoraggiare e alimentare movimenti d’opinione verso nuove prospettive di cooperazione multilaterale, riforme, e sicurezza collettiva, a livello internazionale. Nell’attuale contesto, tuttavia, tali obiezioni meritano di essere tenute di riserva per tempi migliori. La sostanza e le motivazioni delle politiche dell’Occidente, che hanno portato fino a qui, richiedono opposizione prioritaria e ferma. Qui.



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