Dove e quando culture reazionarie di massa (oggi in veste “anti-globalista”) trovano spazio e successo, i democratici non possono credersi assolti. Forse, manca loro qualcosa.
di Raffaele D’Agata
Per quanto seriamente discutibile, la cultura politica coltivata e professata oggi al vertice della politica di Mosca, contribuendo (non da sola, ma in modo importante) a motivare una guerra di grandi proporzioni, non è fascista né certamente nazista. Le semplificazioni riguardanti ciò non aiutano a contrastarla né in sé né nelle pur sue gravi applicazioni pratiche; e soprattutto abbassano, nella confusione, il grado di vigilanza verso quanto di realmente fascista e nazista purtroppo sia oggi attivo e presente. Tuttavia, un genere di “antimondialismo” volutamente innocuo nei confronti delle strutture di fondo del sistema globale oggi vigente, e pericolosamente assonante con talune teorizzazioni di ultradestra, vi sono riconoscibili. Ciò sembra richiedere sia vigilanza sia sforzi di analisi, approfondita quanto più si riesca.
Nei movimenti reazionari di massa due essenziali componenti si lasciano generalmente osservare, le quali provengono rispettivamente dal basso e dall’alto della piramide sociale. Da una parte, cioè, forme di coscienza radicate e diffuse, quotidianamente operanti nel riprodurre modi e aspetti di cultura materiale distinta ed esclusiva (secondo i casi, più o meno povera, più o meno euforica, e più o meno fatalista), e tuttavia capaci eventualmente di muovere a comportamenti di attiva e aggressiva autodifesa in acute situazioni di crisi; dall’altra, operazioni di soggetti sociali dominanti che a propria volta le coltivino, le favoriscano, e in crisi dello stesso genere concorrano a organizzarle e renderle attive onde contrastare o prevenire movimenti di massa tali da mettere in discussione e in pericolo la loro posizione.
Per cercare di sviluppare adeguatamente questo schema, e provare ad applicarlo a quanto accade, conviene fare un percorso non troppo breve indietro nel tempo. Abbastanza spesso, le tradizioni religiose costituiscono una componente importante del fenomeno, secondo uno schema di cui la “Vandea” costituisce l’esempio più spesso citato, fino ad essere assunto come nome per indicarlo. Ma è sempre un errore dimenticare, d’altro canto, quanto il moderno nazionalismo debba in realtà all’effettivo sviluppo della Rivoluzione francese almeno dal 1792 in poi (e anche considerando la connotazione anti-“bretone” della lotta contro la Vandea). Vale forse la pena di aggiungere che, non troppo più raramente, e in forma piuttosto endemica, anche forme puramente “devianti“di reazione al disagio sociale prodotto da fattori diversi (tra cui innovazioni improvvise), socialmente rilevanti ma individualmente motivate anche nel loro eventuale aggregarsi, e sommariamente nominabili come banditismo, si lasciano osservare; talvolta, poi, anche queste ultime sono viste interagire e combinarsi con strategie dei ceti dominanti e con loro contrasti interni (come la storia della mafia mostra ampiamente). Questo secondo aspetto (tralasciando, su questo punto, le mafie) era un motivo dominante dello stato d’animo e delle paure dei ceti sociali superiori (e specialmente di quelli nuovi ed emergenti) durante la crisi sociale e politica europea che precedette i moti rivoluzionari del 1848, quando il termine “classi pericolose” era generalmente preferito al termine “proletariato”, e il tema della “sicurezza” occupava lo spazio pubblico in modo quasi analogo a quanto si è potuto sperimentare recentemente in paesi come il nostro sotto l’impatto delle grandi migrazioni. La stessa parola “comunismo” era usata allora spesso per esprimere queste preoccupazioni non tanto e non soltanto (soprattutto, non ancora) per riferirsi a idee di società come quella che François-Noël Babeuf aveva cominciato a testimoniare attivamente durante la Rivoluzione francese, ma piuttosto per riferirsi alla difesa accanita di forme arcaiche e “feudali” di tutela della sopravvivenza quali l’economia di raccolta contrastante con l’avanzata di forme capitalistiche di uso della terra (mediante comportamenti che in alcune situazioni presentavano confini labili con lo stesso banditismo).
Il celebre incipit del “Manifesto del partito comunista” echeggia in qualche modo un tale clima, nominando il famoso “spettro” aggirantesi per l’Europa. Era infatti entro tale clima che Marx ed Engels allora vivevano, cioè in un clima permeato anche da quel genere di paure dei ceti soddisfatti (che anche un Tocqueville cercava di esprimere e di razionalizzare più o meno freddamente). Tutto ciò che segue in quel testo è uno sforzo di strappare al tradizionalismo, alla semplice devianza, e perciò ovviamente alla reazione dei ceti abbienti in quanto loro possibile strumento manipolabile, il disagio sociale ormai crescente e diffuso. Un intero capitolo, abbastanza fondamentale, vi è del resto dedicato a illustrare come e perché la proprietà di tipo borghese e il mercato, nel loro estendersi a livello globale, fossero da riconoscere come potenti forze al servizio di un processo potenzialmente orientabile, più e meglio che mai, verso una finale e universale liberazione delle migliori possibilità umane; specificando, solo, che l’opera era troppo importante e necessaria per essere lasciata nelle mani, inconsapevoli e altrimenti motivate, della borghesia stessa.
Nel “Manifesto” (che resta uno dei riferimenti essenziali per ogni cultura di universale e solidale affermazione della libertà e della dignità dell’uomo), il modo spietato e irridente in cui gli agenti dell’avanzata del mercato globale spazzavano via e cancellavano “variopinte” differenze e specificità identitarie è descritto con espressioni forti ed efficaci, di fronte alle quali molte fumisterie del presente “antimondialismo” di destra più o meno estrema (e più meno dichiarata) suonano all’incirca come un brano dei Duran Duran rispetto alla Prima Ballata in Sol Minore di Chopin. Ogni volta però che la sguaiata contraffazione ha trovato spazio, si trova da qualche parte alla base una scarsissima considerazione (anzi un pratico rovesciamento), da parte di partiti e leader politici variamente ascrivibili a qualcosa come la “sinistra”, della radicale sfiducia di Marx ed Engels nella capacità della “borghesia” (e perciò di quanto di analogo oggi ne rappresenti il concetto) di sviluppare consapevolmente e coerentemente la sua inconsapevole opera di “progresso” (ossia, c’è da aggiungere, senza effetti del tutto opposti). Questo concorre cioè largamente a permettere di interpretare ciò che va dai movimenti culturali e politici del primo Novecento che contribuirono a produrre combustibile per l’incendio del 1914 alle presenti e contraddittorie trovate coltivate e praticate entro la galassia dell’ultradestra europea, fino ai ben più corposi e pericolosi sviluppi culturali e politici odierni alla base di conflitti di potenza analoghi a quelli di allora.
I fenomeni politico-culturali, cognitivi, comunicazionali, che si associano con i tragici avvenimenti europei di questo tardo inverno, che sono assimilabili a molti di quelli associati con la catastrofe del 1914, non riguardano, nelle loro diverse forme ed espressioni, la sola Russia; e proprio questo li rende più sinistri. E infatti, se non esistessero le armi nucleari, e se ancora l’orrore verso i loro possibili e indicibili effetti non frenasse i massimi responsabili, saremmo già tutti adesso nell’Europa intera (e non solo gli ucraini, che vicino a noi si trovano accanto alle centinaia di migliaia di vittime delle guerre di questo mondo globale) in un baratro dello stesso genere. Conviene però qui continuare a soffermarsi specialmente sugli aspetti peggiori della cultura di guerra presenti (ben più che da oggi) nello scenario russo-ucraino: in particolare, su aspetti perfino farseschi della tragedia come le baruffe più o meno ideologiche dell’ultradestra europea, che inducono una parte di essa a simpatizzare per la Russia di Putin e per le stesse repubbliche del Donbass (dove le motivazioni per l’autodeterminazione e l’autonomia risultano essere, comunque, ben più moltiformi e complesse). Ciò può innanzitutto essere visto come espressione del superbo disprezzo della pace e della quotidianità che contribuisce a definire la mentalità fascista, del fascino mistico per la guerra che trascina i suoi adepti, e di una relativa indifferenza per le parti da assumere onde soddisfare tali pulsioni. Ma c’è dell’altro, più a fondo, che rischia di andare ben oltre la tragica farsa, e ben oltre tali limitate baruffe.
Più a fondo, cioè, conviene considerare che quasi tutte le forme storiche di universalismo (o internazionalismo) hanno presentato carattere elitario (come del resto quasi tutte le democrazie realmente esistite, e qualche esempio significativo di quelle esistenti). Anche su ciò, l’opera di Marx ed Engels, e il grande fenomeno storico che ha stimolato e contribuito a plasmare, hanno costituito dunque la correzione di una tendenza di lunghissima durata, favorendo lo sviluppo di un’eccezione che ha ancora bisogno di diventare, veramente, la regola. Il movimento operaio e socialista cresciuto potentemente tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, proprio con il nome di “Seconda Internazionale”, sviluppò in parte questa eccezione, ma non abbastanza per prevenire la deviazione in senso nazionalistico (in più di un paese tra cui proprio l’Italia) di insoddisfazioni diffuse a causa dell’almeno apparente identificazione di sindacati e partiti socialisti con una specie di semplice élite alternativa (sempre meno rappresentativa ossia “egemonica”, nel senso illustrato da Gramsci nei suoi scritti sulla questione meridionale). Ciò dava luogo a umorali non meno che fortunate critiche della loro cultura come omogenea a quella a suo modo cosmopolitica delle élites dominanti.
Una tale confusione tra internazionalismo socialista e internazionalismo delle classi dominanti toccò il suo culmine nell’atteggiamento delle socialdemocrazie sopravvissute o ricostituite dopo la Prima guerra mondiale, raggiungendo il suo culmine nella Toleranzpolitik verso “governi del Presidente” (monarchico) della Repubblica di Weimar. Questa confusione si presentava collegata da una parte alla “politica dell’adempimento” verso un trattato di pace, e un connesso sistema internazionale, decisamente indifendibili, e dall’altra (strettamente connessa) a dogmi e connessi vincoli economici a loro volta indifendibili anche sulla base della più evoluzionista e pragmatica tra le possibili letture del marxismo. La via (elettorale) al potere del nazismo fu spianata da tutto questo. Nessuno può prevedere adesso se la guerra alimenterà le spore fascisteggianti, più o meno riconoscibili e riconosciute, presenti specificamente nella Russia postsovietica, (così come la Prima guerra mondiale incubò tra l’altro germi di protofascismo particolarmente in Germania, ma non soltanto in Germania), o se fenomeni di segno diverso e migliore troveranno spazio. Di certo, cultura e disegni politici oggi prevalenti in Occidente sono là per soffocare qualunque cosa del genere, e qualunque cosa sia per accadere domani, proprio come il blocco imperialista che uscì vincitore nel 1918 riuscì perfettamente a fare.
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