La reazione occidentale all’azione di Putin è poco meno che la dichiarazione di una guerra di religione, mentre l’idea di un ordine mondiale laico e plurale è urgentemente necessaria.
Raffaele D’Agata
Senza dimenticare altri concreti e vivi aspetti della tragedia, l’attuale guerra in Europa si lascia anche riconoscere come sviluppo di una guerra civile ucraina ormai annosa, durante la quale la Federazione Russa sosteneva gli indipendentisti delle regioni orientali mentre gli Stati Uniti, l’Unione Europea, e la NATO, sostenevano il governo centrale. Dal 24 febbraio, il sostegno russo agli indipendentisti si è trasformato in intervento massiccio e diretto con combattenti e mezzi, mentre il sostegno della NATO al governo di Kiev si è trasformato in una sua massiccia intensificazione difficilmente distinguibile da un intervento, ossia in pesante e determinante immissione di armamenti (qualunque cosa si possa intuire circa il coinvolgimento di combattenti provenienti dalla galassia di privati professionisti delle armi che caratterizza il nostro tempo ormai quasi ovunque).
È in relazione con questo stato di fatti che conviene affrontare la questione della colpa. Il concetto stesso di colpa per la guerra, comunque, è innanzitutto da riconoscere come una novità introdotta nel 1919 nella politica internazionale (e, formalmente e ideologicamente, nel diritto internazionale) dal Trattato di Versailles: e ciò rovesciava un principio chiave che per quasi tre secoli (cioè dal Trattato di Vestfalia del 1648) era stato uno dei fondamenti del sistema europeo degli Stati, dei loro scontri e dei loro incontri, della loro vita e della loro morte. Il Trattato di Vestfalia chiudeva infatti una lunga epoca di guerre totali e illimitate, condotte come lotta di verità contro errore, bene contro male, e conseguentemente asseriva che il risultato dell’ordalia (solo tribunale riconosciuto nei conflitti tra Stati sovrani) non aveva alcuna influenza sulla legittimità del vinto, sempre comunque riconosciuta e confermata.
Le convenzioni fondate sul Trattato di Vestfalia riconoscevano il “diritto alla guerra” come attributo essenziale degli Stati sovrani, essendo insindacabile la loro eventuale scelta di esercitarlo. Nulla poteva tuttavia essere detto circa il carattere “giusto” o no di tale scelta (e meno ancora circa il suo carattere morale o immorale). Da questo punto di vista, si può riconoscere nei negoziatori di Vestfalia un apprezzabile grado di onestà intellettuale (per quanto cupa). Essi andarono cioè molto vicino ad ammettere la contiguità tra la conduzione di Stati e di guerre e le attività del crimine organizzato (gli agostiniani “latrocinia”), regolato effettivamente da convenzioni e prassi diverse ma essenzialmente analoghe.
Una dissimmetria che caratterizza il dramma in corso sta dunque in ciò, che Putin sembra veramente avere agito secondo i cupi ma freddi principi di Vestfalia, mentre i governi dei paesi della NATO sembrano, ancora più chiaramente, avere reagito secondo i principi di Versailles. Poiché per trattare bisogna parlare, e per parlare bisogna condividere un linguaggio, ciò rende molto difficile la strada di una soluzione negoziata. La NATO, in effetti, ha dichiarato poco più e poco meno che una guerra di religione.
Tuttavia, c’è in questo anche qualcosa di torbido e intellettualmente confuso. Nell’ideologia e nella propaganda di guerra della NATO, cioè, l’effettivo riferimento a Versailles è rivestito e nascosto entro l’enunciazione di analogie tra la loro causa dichiarata e quelli che conviene qui indicare come “principi di Casablanca”, ossia con quella che allora (cioè nel 1943) fu l’enunciazione della resa incondizionata come solo possibile scopo della lotta vittoriosa contro i regimi fascisti. Una tale operazione ideologica implica due grossi errori (consapevoli o meno). Innanzitutto, infatti, ogni equiparazione tra la Russia di oggi e la Germania nazista non può che sconvolgere per la sua superficialità e per la connessa inevitabile minimizzazione del nazismo stesso. In secondo luogo, i “principi di Casablanca” furono enunciati proprio da un deciso critico di quelli di Versailles, cioè da Franklin D. Roosevelt alla presenza di un semi-convinto Churchill e con il pieno appoggio dell’assente Stalin, e preludevano proprio alla tentata e poi solo parzialmente riuscita realizzazione di un disegno laico e non “religioso” di convivenza internazionale equilibrata e sostenibile: basata cioè non su un unico modello di civiltà da venerare e promuovere come perfetto, bensì plurale, equilibrata, e aperta a scambi di contributi.
Avendo fondato e promosso un sistema mondiale squilibrato e insostenibile, i leader dell’Occidente odierno non sembrano avere molto da dire su ciò.
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