La storia non è un magazzino di parole e di simboli da usare alla rinfusa, ma un deposito di senso; e né confini né stranieri fanno parte del senso della Resistenza
di Raffaele D’Agata
Anche la terza guerra interimperialista, naturalmente, si scatena al culmine di una fase di crisi e di convulsioni del sistema-mondo capitalistico, dopo un lunghissimo intervallo seguito alla seconda in virtù degli aspetti rivoluzionari che questa aveva assunto e delle conseguenti significative alterazioni dei caratteri del sistema in termini di rapporti globali tra le classi e di connesso potere di controllo. Abbastanza ironicamente, alla fine del secolo scorso, la rimozione di tali alterazioni fu celebrata come une fase in qualche modo “suprema” del capitalismo globale: non però in termini di catastrofe, bensì di trionfo, all’opposto di quanto Lenin seppe intuire a suo tempo (sbagliando soltanto circa tempi e conseguenze). Su ciò, è inutile adesso infierire.
Il Grande Crollo del 2008 non ebbe naturalmente grande effetto sull’ideologia e sul discorso pubblico delle classi dominanti (a parte qualche opportunistico abbassamento di toni), mentre ha avuto però enorme effetto sui loro comportamenti, come accadde dopo l’analogo Grande Crollo del 1929. In effetti, cioè, gli anni Dieci del Duemila sono stati un periodo di intensa militarizzazione delle relazioni internazionali così come lo furono gli anni Trenta del Novecento; intensa e crescente (in entrambi i casi) quanto basta per rendere puramente convenzionali (né universalmente accettate o certe) le date d’inizio usualmente attribuite poi alle conseguenti “guerre mondiali” (rispettivamente, cioè, 1939 e 2022). L’aggressione italiana all’Etiopia (1935) può essere infatti accostata all’aggressione della NATO contro la Libia (2011), trascinata da esigenze vitali del sub-imperialismo francese; e l’intromissione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Ucraina dal 2014 in poi non si presenta concettualmente molto dissimile dal colpo di forza e dalle successive manovre giapponesi in Manciuria dal 1931 in poi, pur essendo stata meno vistosa e anzi ampiamente coperta per quanto riguarda (soprattutto inizialmente) gli aspetti propriamente militari (con elementi di potere “soft” abilmente sovrapposti al lavoro sporco delle bande neonaziste, e certamente ben diversi, si deve riconoscere, dallo stile e dall’iconografia dell’Impero del Sol Levante).
Sul terreno ideologico, le rispettive ideologie e i rispettivi linguaggi di propaganda bellica hanno, a loro volta, un odore antico. L’ideologia e la propaganda bellica dell’imperialismo russo (nelle sue varie facce e versioni) appare abbastanza accostabile all’ideologia e alla propaganda di guerra del Reich Tedesco (a sua volta, nelle sue varie forme e versioni) durante la prima guerra interimperialista. In entrambi questi casi infatti si riscontrano temi chiave come quello dell’“accerchiamento” e quello della specificità culturale (“Sonderweg”) da rivendicare e promuovere nei confronti del modello di civiltà predominante a livello globale (ossia un conflitto di idee simile a quello che Thomas Mann seppe magistralmente raffigurare nella “Montagna incantata” dopo averlo preso molto sul serio durante la guerra e mentre lo superava in una sintesi feconda). A sua volta, l’ideologia del blocco euroatlantico ricalca le violente invettive intonate dalla propaganda dei governi dell’Intesa ormai oltre un secolo fa, inclusa (ma in modo ancora più martellante ed arbitrario) l’attribuzione al nemico di ogni immaginabile efferatezza, passando sopra ogni bisogno di prove.
Ma l’aspetto più sconvolgente e grave dell’operazione ideologica effettuata dai circoli di potere egemoni entro il mondo euroatlantico, con la connivente adesione del mondo culturale allineato, è la costruzione di una memoria storica motivante che tenta di aggredire e alterare dall’interno i valori democratici e popolari sviluppati attraverso la rivoluzione antifascista che trasformò la seconda guerra interimperialista in qualcosa di profondamente diverso. Così come Disraeli si vantava di avere sorpreso i “whig” mentre facevano il bagno ed essere filato via con i loro vestiti, i dirigenti occidentali e la loro corte esibiscono oggi simboli e temi dell’epopea dell’antifascismo mescolandoli alla rinfusa e strappandoli via dal contesto di cui fecero parte e che gli diede stabilmente un senso. Né del resto i “whig” di oggi, per usare l’ambiguo termine che ben si attaglia alla cosiddetta sinistra del potere stabilito, sembrano sconvolti da ciò. La ben nota equiparazione tra nazismo e comunismo votata dalla “Chambre introuvable” di Strasburgo nel 2019 costituisce la premessa di tale operazione, che assume perciò l’aspetto di una correzione del corso della storia tendendo a realizzare oggi ciò che i conservatori di tutto il mondo avrebbero desiderato fare dal 1939 in poi, cioè difendere e ristabilire i tradizionali rapporti di potenza entro il sistema-mondo o contenere al massimo le loro possibili alterazioni (più o meno includendo in ciò le sovranità nazionali aggressivamente calpestate dal “nuovo ordine” hitleriano), non soltanto facendo a meno di qualunque apporto comunista e specificamente sovietico ma possibilmente trovando il modo o cogliendo l’occasione per fare i conti anche con il comunismo e in particolare con l’URSS (la quale, nella crisi del 1939-1940, non era affatto ansiosa di dare tale apporto finché il problema era posto in questi termini, esplicitamente formulati per tutti da leader occidentali dell’epoca come Paul Reynaud).
Con ciò, l’unicità e la specificità della Resistenza antifascista come produttrice di senso e di valori è confusa e assorbita nell’indistinzione, così come del resto l’unicità del nazismo come anti-umanismo radicale; ossia, la Resistenza antifascista è collocata come un caso particolare entro una categoria di vicende storiche che vanno dalla guerriglia antinapoleonica in Spagna (e, prima ancora, sanfedista nel Mezzogiorno d’Italia) alla guerriglia islamista in Afghanistan vittoriosa dapprima contro i sovietici essendo alleata dell’Occidente e poi, in uno sviluppo oggi tranquillamente rimosso e dimenticato sebbene recentissimo, contro l’Occidente. Ma soprattutto, con ciò, un aspetto essenziale della Resistenza antifascista che viene cancellato è l’intenso processo di contaminazione reciproca di valori popolari, certamente mediato e favorito dalla presenza e dall’opera di grandi comunità organizzate come i partiti di massa, che ebbe luogo in quegli anni, mettendo esigenze universali di emancipazione umana almeno sullo stesso piano, se non piuttosto in primo piano, rispetto ad esigenze di liberazione dallo “straniero”.
Difendere la memoria e i valori della Resistenza antifascista significa quindi, adesso, difendere innanzitutto il loro aspetto universale, che la propaganda di guerra nel campo in cui ci troviamo distorce e deforma in termini di neo-nazionalismo, gettando via con disinvolto cinismo anni e decenni di chiacchere “anti-sovraniste” e più o meno globaliste. Significa valorizzare la continuità dei valori della Resistenza con la resistenza antimilitarista, antinazionalista e (in una parola) internazionalista che un secolo fa si unì nella parola d’ordine della “pace senza annessioni né riparazioni”, ulteriormente traducibile (nella presente situazione) in termini di irrilevanza delle questioni territoriali rispetto alle esigenze di vita, sociali e culturali, delle persone in carne ed ossa. Come, appunto, gli accordi di Minsk avrebbero garantito se il regime di Kiev e l’Occidente non li avessero violati e stracciati costantemente.
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