La leggenda di un conflitto tra democrazia e autoritarismo echeggia una delle grandi menzogne del 1914, e se le parti in conflitto distorcono rispettivamente il significato del 25 aprile e quello del 9 maggio, l’eredità del 1917 si rivela sempre più attuale.
Raffaele D’Agata
La resistenza opposta dall’esercito di Kiev e da molti volontari ucraini all’invasione russa ha dato luogo in Europa a quella che per il momento appare, e si prospetta, come una guerra di posizione alquanto simile a quella che ebbe inizio cento e otto anni fa sui campi della Marna. Sarà altrettanto lunga? Coinvolgerà ulteriormente questa guerra altre nazioni e potenze già coinvolte (tra cui il nostro paese) come retrovia e arsenale del fronte ucraino? Come può finire questa guerra, allorché finirà? E intanto (argomento aspramente dibattuto), in quale modo chiama essa in causa motivi e valori che sono celebrati oggi, al di là della coincidenza lessicale tra un termine tecnico (“resistenza” che un esercito opponga a un altro, e anche grossomodo una nazione a un’altra) e un termine storico (“Resistenza” per eccellenza, ossia vittoria di tutti i popoli, e dell’umanità stessa, contro la sfida radicale ad ogni valore e ad ogni senso sferrata dal nazi-fascismo)?
Appare difficile rispondere senza considerare il carattere assolutamente unico e speciale della sfida di allora (lontano da analogie superficiali o strumentali che comportano anche il rischio di non riconoscere e non schiacciare sul nascere ogni suo nuovo seme, entro indistinte equiparazioni), e perciò anche il carattere nuovo, creativo, e universalmente umano, che contraddistingue la Resistenza come concetto storico. Al fondo della giusta posizione presa dall’ANPI sulla guerra in corso, si può fortunatamente riconoscere questa chiara visione.
L’importanza delle ragioni della pace, cioè della vita, cioè della stessa sopravvivenza, che fecero della Resistenza un vasto e potente moto di popolo e di popoli, e non soltanto di pur valorosi combattenti, ossia qualcosa in più (ed essenziale) oltre la semplice e classica opposizione di guerra a guerra, non può essere trascurata senza travisare ogni senso. Ciò non significa cancellare motivi nazionali, e di indipendenza nazionale, ampiamente riconoscibili in più di uno scenario locale e nazionale della Resistenza, né le conseguenti contraddizioni anche gravi che toccarono per esempio proprio la nostra vicenda nazionale per quanto riguarda i rapporti con un popolo vicino (ossia proprio con quello per il quale i motivi nazionali nella lotta di liberazione furono particolarmente forti e talvolta soverchianti). Significa però anche e innanzitutto non cancellare l’aspetto di guerra civile, e non indistintamente nazionale, che la Resistenza presentò, particolarmente in Italia, non come anomalia ma come manifestazione della vera e propria guerra civile mondiale, tra le ragioni dell’umanità e la loro radicale negazione, che ebbe luogo in quegli anni.
È per questa ragione che la bandiera rossa innalzata sul tetto del Reichstag il 9 maggio del 1945 da un soldato sovietico rappresentò allora una condivisa vittoria umana e non un segno di divisione o di pura e semplice sfida. Ma che cosa significa oggi l’occasionale riferimento a quella bandiera, e la glorificazione ufficiale di quella data, per opera di una potenza che costituisce una delle parti della guerra attualmente in corso, e rivendica una continuità identitaria con la dissolta Unione Sovietica pur essendo oggi qualcosa di radicalmente diverso e non migliore? Il riferimento all’eredità sovietica da parte del sistema di potere che attualmente organizza ed esprime la Russia non è meno costituito da un uso strumentale e “à la carte” di suoi elementi, rispetto a quanto il riferimento all’antifascismo lo sia da parte dei leader dell’Occidente. Il ricorso unilaterale alla guerra su larga scala, e alla guerra d’invasione, come solo modo restato per risolvere i nodi aggrovigliati della difficile convivenza di identità e culture tra il Mar Nero e il bacino del Don, è stato giustificato anche mediante il ricorso a taluni di questi elementi. Una paziente e tenace ulteriore insistenza nel promuovere altri modi, cioè quelli teoricamente previsti dagli accordi di Minsk e boicottati da Kiev e dall’Occidente, avrebbe avuto i suoi costi, tra cui il duro sacrificio imposto agli abitanti del Donbass quotidianamente bombardati, ma complessivamente minori di quelli, terribili, che ora si devono contare e prevedere su tutti i terreni.
Ma il valore universale del 9 maggio, in quei termini, resta. Non si dovrebbe dimenticare che l’abolizione della festività, non più considerata una vittoria, costituì uno dei primi gesti del regime instaurato a Kiev nel 2014, e per quanto si possa vedere in ciò anche il rovesciamento speculare del raggrinzimento nazionalistico della data e del suo senso da parte russa, la contemporanea glorificazione del nazionalismo filo-hitleriano durante la seconda guerra mondiale, e tutto quanto ne deriva nel sistema politico oggi vigente in Ucraina, rendono del tutto vuota e falsa la sollecitazione a schierarsi nella guerra in corso come in un conflitto tra “democrazia” e “autoritarismo”. Questa leggenda echeggia in modo impressionante una delle grandi menzogne del 1914, se non la maggiore. E il rifiuto di credervi e di servirla, che si levò potente nella città allora detta Pietrogrado il 7 novembre 1917, resta l’esempio migliore cui convenga riferirsi nella guerra in corso.
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