Fantasmi “progressisti” e necessità socialiste

Alcuni pensieri lunghi nell’attesa, purtroppo non lunga, di un difficile appuntamento elettorale.

Raffaele D’Agata

Il fastidioso spettro che si aggira per l’Italia in questi mesi pre-elettorali non è definibile come tale nel senso sarcastico pensato da Marx e da Engels con riferimento alle paure borghesi del loro tempo, ma proprio nel senso di miraggio, falso vedere e falso pensare, vanità che par persona: è il fantasma del “progressismo” e dei “progressisti”, dei quali si invoca una ovviamente indefinita e indefinibile “unità”. Unità chiaramente destinata, nelle intenzioni di chi appunto la va invocando, a sfruttare “al meglio” (relativamente) i perversi meccanismi legislativi chiamati a filtrare e confezionare ad usum principis i pronunciamenti popolari che comunque, in qualche misura, avranno luogo in primavera. La combinazione del Porcellum 2.0. e della miniaturizzazione della rappresentanza parlamentare (che il grande equivoco pentastellato ha generosamente offerto al regime prima di ritornare al suo nulla) rendono infatti il prossimo generale appuntamento con le urne quanto di più simile a quello che esattamente cento anni prima blindò la prona maggioranza mussoliniana in virtù di regole elettorali apposite ma tutto sommato meno indecenti di quelle che sono presentemente in vigore (e furono volute o accettate, non si dimentichi, da molti dei “progressisti” che oggi si vorrebbe vedere “uniti”).

Parole come “progressismo” (e “progressisti”), del resto, fanno parte del pensiero assonnato, snervato, stanco, che finge di accompagnare la rotta senza timone, e verso gli scogli, che la storia sembra seguire in questo ormai già avanzato ventunesimo secolo. Già un po’ di sana scaramanzia dovrebbe sconsigliare la riesumazione di tali parole in un contesto elettorale, dopo quanto accadde allorché nel 1994 una “gioiosa macchina da guerra” le recò nelle proprie insegne marciando a completare e consolidare uno storico disastro. In essenza, poi, il concetto di progresso (sebbene abbia avuto effettivamente nella storia significati importanti e positivi) resta un concetto relativo, ossia inesorabilmente bisognoso d’altro per significare realmente, non meno (del resto) di quello di “sinistra”. Sinistra, infatti, rispetto a che? E progresso verso dove? Uno dei maggiori storici e politologi dello scorso secolo, cioè René Rémond, ha pur illustrato come ogni “destra” sia sempre stata la strisciante metamorfosi di una precedente “sinistra”: Georges Clemenceau fu la vivente dimostrazione di questo cento anni fa, e molti banditori dell’ “unità dei progressisti”, nel loro piccolo, sono ben incamminati ad esserlo in Italia oggi (in entrambi i casi, con una guerra da esaltare).

Fuori da questo cammino, ben distinta da questo, e anzi ormai necessariamente opposta e alternativa a questo, è necessaria adesso l’unità sotto il segno e con il chiaro intendimento del socialismo, non importa poi se letteralmente enunciato in simboli e bandiere (come troppe volte è accaduto e anche accade in modo falso e beffardo): ma del socialismo senza aggettivi, che già August Bebel, nel riferirlo a sé, lasciava tranquillamente denominare comunismo. Senza aggettivi, appunto, mentre troppo spesso gli aggettivi hanno generato, e tornano a generare, ossimori e pleonasmi.

Pleonastico è in sé (sebbene storicamente abbia espresso un’esigenza) il termine “comunismo democratico”, essendo l’ideale del comunismo proprio il compimento pieno e la forma più pura dell’idea di democrazia; mentre il termine “socialismo liberale”, che qualche banditore di forme ed ombre di “progressismo” oggi ripropone quasi fosse nuovo, può essere tanto un ossimoro quanto, a sua volta, un pleonasmo.

Divertente ossimoro (e vi si divertiva infatti Croce evocando il “pesce mammifero”) è infatti il socialismo liberale oggi tanto caro al povero Calenda se riferito all’impossibile amalgama di qualche partito vero e proprio, ossia storico e determinato, che sia dunque portatore di determinati interessi e determinate scelte di priorità; mentre tuttavia, più seriamente e più profondamente, pleonasmo esso diventa là dove si intenda per liberalismo la forma normale della politica moderna, emancipata da ogni costrizione di identità tribali e da ogni travestimento e irrigidimento autoritario dell’infinito anelito alla verità, essendo piuttosto riconoscimento della pluralità delle coscienze – anche proprio come coscienze empiriche, e tanto più allora certo entro contesti determinati – come risorsa da curare e assicurare anziché come difficoltà da fronteggiare e neutralizzare. “Partito” e dunque parte, quale che ne sia la storica denominazione, il liberalismo diventa (come oggi accade in più forme, anche apparentemente concorrenti) allorché muova innanzitutto dalla sovranità dell’io, e anche specificamente dell’io reale e determinato, e guardi a necessità esterne da affrontare in modo condiviso essenzialmente come ad ostacoli, che la politica debba assumere come proprio oggetto e cura nella minima misura possibile: laddove è proprio del socialismo il muovere innanzitutto dal comune destino e dai comuni universali bisogni dell’umanità in carne ed ossa onde rendere e innanzitutto mantenere la terra amica, il destino meno grave, e di ciò fare lo spazio reale ove la libertà possa essere esercitata realmente, non solo da pochi, e perciò anche comunitariamente.

Tali pensieri, ed altri che li sviluppino e li precisino, li calino nella realtà, e li rendano fecondi di risultati, sono offerti al cammino che intanto viene intrapreso, fuori da quelle strampalate o furbesche fumisterie, verso una forma italiana di quella Unione popolare ecologista e sociale che recentemente in Francia ha mostrato come regole sleali di regime possano essere sfidate, e la democrazia realmente praticata, a viso aperto e con successo crescente.

Alla vigilia di un appuntamento romano che può e deve essere storico, essi vogliono essere un saluto e un augurio.



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