Ecco perché l’avventura di “Unione Popolare” comincia in realtà proprio adesso.
Raffaele D’Agata
La coraggiosa battaglia politica di Unione Popolare contro i vincoli e i limiti ferrei dell’attuale regime italiano (o “sistema politico”, per orecchi delicati) ha inserito una nota discordante, che deve continuare a risuonare e crescere, nel passivo coro di consensi che vorrebbe spacciare per normale il presente modo in cui la vita politica si svolge nel nostro paese (anche se “vita”, in questo caso, è una parola un po’ esagerata). Ha preservato l’originalità e la giusta e necessaria radicalità del suo messaggio e della sua missione da ogni adattamento alla sfacciata illegalità delle norme che, variamente, regolano i processi elettorali almeno dal 2005 ad oggi; e così anche ha preservato la chiarezza e la riconoscibilità della sua estraneità al consenso di fondo che unisce le larve o simulacri di patito oggi presenti nelle istituzioni (più o meno euforicamente, o in modo rassegnato) nell’omaggio obbediente ad alcuni vincoli: fedeltà atlantica, lealtà costituzionale al regime di Bruxelles, monetarismo (cioè, sostanzialmente, adeguamento del livello di occupazione e di diritti al pregio costante del denaro piuttosto che del denaro in quanto fondamentale strumento e bene pubblico, da controllare e amministrare pubblicamente a fini generali, a un decente livello di occupazione e di diritti).
Saprà adesso Unione Popolare assumere coerentemente la funzione e in qualche modo anche una “forma” di partito nel significato forte del termine, ossia quello di intellettuale collettivo capace di interagire attivamente con le sensibilità popolari, facilitare e anche contribuire a suscitare auto-espressioni coerenti e sane di queste, e perciò di modificare a fondo la realtà? Nulla meno di ciò è infatti domandato da un tempo di guerra e di catastrofe sistemica come quello che viviamo.
Dal punto di vista della forma, fino a questo momento Unione Popolare ha quella di federazione di organizzazioni politiche, la cui unità di decisione e di azione è stata finora assicurata essenzialmente da contatti tra i rispettivi nuclei dirigenti. Una di queste e “Potere al popolo!”, la cui missione originaria (quando appunto nacque) consisteva proprio nel rinnovare e allargare l’intero ormai ristretto panorama delle organizzazioni antisistemiche mediante una accentuata trasversalità della militanza e della partecipazione, anche come premessa di un’estensione di queste per effetto di pratiche meno irrigidite. Questo processo si arrestò molto prematuramente, e ne risultò un forte rallentamento del processo di crescita di quella parte dell’impresa che frattanto ne aveva conservato il nome. Oggi si ritorna, con nuovo nome condiviso (che tuttavia, saggiamente, non forza via né nomi né simboli cari a ciascuno, nei momenti e nelle situazioni compatibili) a quel punto, e a quelle possibilità.
Un numeroso popolo di persone deluse, e talvolta disperate, comprensibilmente sospettoso verso chiunque gli si accosti e lo solleciti, aspetta più o meno consapevolmente il credibile “apparir d’un amico stendardo”: di un messaggio semplice, coerente, che tocchi la sua vita, le sue ansie, la sua sofferenza materiale e morale. Perciò, a quanti assumono adesso il ruolo di suscitare un tale processo, di facilitarlo, di estenderlo, spetta il dovere di abbandonare qualunque residuo atteggiamento auto-referenziale, qualunque “patriottismo di organizzazione” che non equivalga alla giusta valorizzazione (comunque critica) del senso della missione già svolta entro un cammino di crescita condivisa. Si tratta anche di abbandonare ogni attaccamento a pregiudiziali che, a una critica attenta, si rivelino espressione piuttosto di puntiglio che di sostanza politica: così per esempio riferimenti a “sensibilità diverse” che indubbiamente esistono ma sono là per interagire fecondamente e liberamente piuttosto che per essere formalmente garantite a priori; così l’onnipresenza sempre e comunque pretesa per simboli cari a tutti e stranamente assunti a marchio di identità distinte, che tanto ricorda il ben noto apologo del dito e della luna; così la trasformazione in discriminanti pregiudiziali, anziché in valutazioni concrete da assumere e confrontare in situazioni concrete, e sempre concedendo a una maggioranza l’assunzione di un rischio di sbagliare anziché di un altro, di questo o quel modo di contrastare e rifiutare il regime di Bruxelles e di praticare una condivisa slealtà nei suoi confronti.
Buon lavoro fin da adesso quindi, alla prossima Assemblea Nazionale di Unione Popolare.
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