Come è previsto in ogni procedimento fallimentare, il PD sarà ora diretto da un vertice proveniente dall’esterno. Che cosa ciò può significare (e richiedere) nella magmatica evoluzione del regime realmente esistente.
Raffaele D’Agata
L’ascesa di una figura politica relativamente nuova alla testa di quanto rimane del Partito Democratico è una svolta che può avere conseguenze molto diverse e anche importanti, non tanto (e comunque non solo) direttamente, ma in concomitanza con varie possibili catene di azioni e reazioni. I giudizi sul fatto (e anche sul personaggio) non sono mai stati neutri (particolarmente entro gli spazi virtuali di comunicazione di massa) e anche chi scrive non è stato tra gli ultimi nell’alimentare, dal suo punto di vista, tale perfino accesa vivacità. Premettendo che un giudizio totalmente sfavorevole (specialmente quanto agli sviluppi più o meno direttamente possibili) non avrebbe motivi sufficienti (ma molto meno, se è per questo, il contrario), da adesso in poi non c’è da perdere tempo, piuttosto, per cominciare a ragionare su ciò che possa e che meglio dovrebbe accadere.
Il primo tra gli aspetti non propizi del fatto è il modo stesso in cui si è prodotto, cioè le cosiddette “primarie”, commovente imitazione e bizzarro trapianto di un’altra storia entro la nostra come parte di un ormai lungo processo che rende lo spazio pubblico scarsamente e fallacemente rappresentativo della complessità del Paese. Emergendo per questa via, Schlein continua un’idea di politica che si sviluppa con continuità da Veltroni, via Renzi, come ideale di “partito leggero”: idea aberrante e contraddittoria in sé, tanto da avere ispirato giusti motteggi circa l’enorme quantità di esagerazione contenuta in due soli termini. Perché mai, infatti, entro un sistema globale (prima che nazionale) ricolmo di soggetti forti e spesso fortissimi, non politici e poco attinenti alla democrazia, proprio i partiti dovrebbero essere “leggeri”, se non per cedere benignamente il primato a tali soggetti e forze? La quale cosa, infatti, ha avuto puntualmente luogo, giacché il campo del lecito e del possibile, nelle scelte delle comunità politicamente( almeno un tempo) oganizzate, è adesso quasi insindacabilmente determinato e circoscritto da entità come Standard & Poor’s (per dirne una). Non casualmente, in questo secolo, il PD è stato motore (così come già prima tutto l’insieme del “centrosinistra”), di un costante, sordo e puramente passivo adeguamento a tutte indistintamente le realtà e miti (soprattutto questi) della globalizzazione: ossia, delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni nella pubblica amministrazione e nei suoi servizi, della precarizzazione del lavoro, della costituzionalizzazione quasi in forma di “sharìa” della dottrina economica monetarista, della prima apertura di una breccia (estesa e disastrosa) nel recinto di difesa della Costituzione, infine della definitiva trasformazione del Parlamento in “specchio” sì, ma opportunamente incurvato e irriconoscibilmente deformante, dell’anima della nazione.
Va da sé che l’intendimento della commissaria curatrice non è liquidare la “società” ma ristrutturarla anche con nuovi apporti di capitale (Santori avrà un pacchetto, per esempio?). Tuttavia, non essendoci in questo caso articoli di codice civile da rispettare (pur restando fondata l’analogia), i rapporti tra commissaria curatrice e staff interno originario del PD non si preannunciano affatto dolci. Per fare dispetto a Bonaccini, è possibile che Schlein si distanzi significativamente dall’autonomia regionale differenziata tanto cara a costui, ma non è che un esempio. Ancora più verosimile è che, con qualche tenue proposta di rallentamento nel flusso di armi a Kiev o qualche innocua enunciazione circa le virtù del metodo negoziale, ella faccia mosse nella direzione del nuovo e magari anche strutturato centrosinistra di cui eventualmente parlare con Conte, che lo staff interno vede piuttosto come il fumo negli occhi.
Se si parla della più recente configurazione della metamorfosi della melassa di origine grillina, per altro, non si può neanche considerarla definita o stabile, né priva di problemi. Il suo comportamento altalenante nei recenti episodi ancora ostinatamente chiamati “elezioni”, In Lombardia e nel Lazio, non sono quelli di una forza politica che abbia preso il vento e sappia che cosa voglia (pur immaginando per assurdo che lo sapesse in origine). Il grado di probabilità di un riassestamento del caos in atto nel senso della formazione di un nuovo centrosinistra sulla linea della recente coalizione lombarda non è attualmente molto alto, e ancora più basso è quello della formazione di un’entità politica almeno “scalabile” in direzione meno interclassista (o piuttosto meno proprietario-borghese) e più “laburista”: per questo esito, che alcuni auspicano con onesta generosità, soltanto Bersani e pochi altri possiedono forse la cultura motivante (del resto, più che annacquata) in area PD; e quanto alla cultura presente in area pentastellata ci sono anche cose interessanti ma non per questo più influenti e considerate.
Esiti del genere sono abbastanza improbabili per scoraggiare ed escludere operazioni la cui riuscita consista nel loro avverarsi. Ma prima di tutto è necessario che operazioni ci siano, si vedano, ed abbiano luogo adesso, organizzate e stimolate diffusamente nel paese, non un mese sì e un mese forse. Si parla, naturalmente, di Unione Popolare (vedi mio precedente articolo su questo blog). La campagna referendaria multipla che è stata forse il solo programma preciso enunciato nell’assemblea romana del 2 dicembre comporta lavorarci. intensamente e in modo quasi esclusivo, adesso, e non si spiega come possano essere trascorsi due mesi senza neanche cominciare; (cosa di cui gli eventi detti comunque elezioni in Lazio e Lombardia avrebbero ben potuto costituire l’occasione così anche riscattandosi).
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